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Patologie da "invecchiamento"., Indagini diagnostiche, marker precursori.

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Mauro M
view post Posted on 19/8/2006, 20:59




ISOFORME LIPOPROTEINA (a) e CALCIUM SCORE,

DUE TEST PROPOSTI DAL CENTRO DIAGNOSTICO ITALIANO

Il primo, denominato “Isoforme Lipoproteina(a)”, con un semplice prelievo del sangue, permette di effettuare un’indagine diagnostica sulle forme della lipoproteina(a), definendone il peso molecolare e la conseguente predisposizione genetica all’infarto. E’ stato infatti dimostrato che le alterazioni legate alle isoforme di questa lipoproteina sono associate ad una predisposizione genetica all'infarto: se il peso molecolare risulta basso vi è predisposizione all’infarto del miocardio, se il peso molecolare è alto il rischio si attenua.
Il test, sperimentato dal Prof. Diego Giroldi, docente di Malattie del Metabolismo presso il Policlinico San Matteo - Università di Pavia, è stato effettuato per la prima volta in Italia dal Laboratorio del CDI - Centro Diagnostico Italiano.
Da tempo si indagava sui livelli di lipoproteina(a) in relazione alla gravità delle malattie delle arterie coronariche e si sospettava che questa proteina, ereditata geneticamente, fosse associata alle malattie cardiovascolari. Il Prof. Giroldi, mettendo a confronto 400 persone infartuate con 400 donatori di sangue, ha scoperto che è il peso molecolare della lipoproteina(a), e non la sua quantità presente nel sangue, a determinare la predisposizione genetica all'infarto del miocardio.
Il secondo esame, denominato Calcium Score e ancora in fase sperimentale, potrà essere eseguito a breve. Si tratta di una tecnica di diagnosi non invasiva, basata sulla misurazione della quantità e qualità di calcio nelle arterie coronariche. L’esame, grazie a macchine e programmi all’avanguardia, individua la presenza di placche calcificate nelle coronarie di soggetti a rischio d’infarto. Il calcium-score è un metodo valido, non rischioso e rapido per predire un evento miocardio acuto. L’analisi é utilizzata per controllare l’efficacia delle misure di prevenzione ed é proposta solo dopo un’accurata valutazione dei parametri convenzionali di rischio (colesterolo, familiarità, fumo, diabete, ipertensione ecc.).






Chi ha avuto diagnosticato il diabete nell’infanzia puo' mostrare segni precoci di malattie cardiache fin dall’adolescenza, specialmente se fumatori e se presentano nel sangue livelli elevati di lipoproteina A. Questa la conclusione di un recente studio statunitense, che consiglia un migliore controllo metabolico e una maggiore informazione dai medici ai giovani diabetici sui fattori di rischio cardiovascolare già dai primi anni di malattia. Harold S. Starkman, autore dello studio, precisa che i medici dovrebbero raccomandare di non fumare e di controllare i livelli di colesterolo "molto, molto presto". Su un campione di 101 diabetici di tipo 1 tra i 17 e i 28 anni, con nessuna precedente malattia cardiaca, l’11% ha presentato un accumulo di calcio all’interno delle pareti arteriose (il più giovane aveva soltanto 17 anni). Questi depositi sono un indicatore di malattie cardiache e di solito si hanno molto prima che una persona sviluppi sintomi evidenti. Nello studio, Starkman ed i suoi colleghi hanno prelevato i campioni di sangue ed hanno selezionato i pazienti che presentavano calcificazioni nell’arteria coronarica rilevandole tramite tomografia a fascio elettronico. I ricercatori hanno scoperto che coloro che si erano dichiarati fumatori presentavano un fattore di rischio cinque volte più alto dei non-fumatori di avere un’accumulo di calcio sulle pareti delle arterie coronariche. Elevati livelli nel sangue della lipoproteina A, inoltre, sono risultati essere associati a più alti livelli di calcificazione. Senza dover necessariamente ricorrere alla tomografia, un metodo meno costoso di monitoraggio potrebbe quindi essere quello di utilizzare i campioni di sangue normalmente prelevati per i controlli medici periodici dei diabetici, alla ricerca di livelli elevati di lipoproteina A. Una volta identificate le persone a maggior rischio, il modo migliore per prevenire l’evolvere di malattie cardiache potrebbe semplicemente essere un controllo più rigido del diabete. Esercizio, dieta, smettere di fumare, ed altri "accorgimenti salutari per il cuore" possono contribuire a mantenere glicemie e pressione sanguigne a livelli accettabili.



Gli indicatori «classici» del rischio cardiovascolare utilizzati correntemente, come i differenti valori di colesterolo, i trigliceridi o la proteina PCR ultrasensibile, non coprono tutti gli aspetti di questo rischio. Abbinato alle analisi di routine, questo bilancio offre una visione globale dei fattori di rischio.


La PCR ultrasensible (PCR-us) è un marcatore infiammatorio che aggiunge un valore prognostico importante allo score di rischio secondo Framingham. I dosaggi della PCR-us e delle LDL possono identificare gruppi di rischio differenti e il loro depistaggio simultaneo sembra dare un miglior indice prognostico che non nell’uso separato.


L’iperomocisteinemia appare come un fattore indipendente del rischio d’infarto del miocardio e degli incidenti vascolari cerebrali. Dato il suo carattere quantitativo questo fattore di rischio concerne una parte importante della popolazione e non è limitato ai soli individui che presentano dei tassi molto elevati di omocisteina.


La lipoproteina (a) rientra nella costituzione di una lipoproteina proaterogena e protrombogena. Appare, alla luce di studi retrospettivi, come un marcatore addizionale e indipendente degli incidenti cardiovascolari precoci.
Le LDL ossidate sono implicate in diverse tappe del processo aterogeno.




Ictus più prevedibile

In Italia ogni anno l'ictus colpisce circa 200 mila persone, rappresenta la prima causa di invalidità e può condurre alla morte quasi il 30% degli individui colpiti nel primo anno dopo l'evento. Oltre ai tradizionali fattori di rischio quali diabete, pressione arteriosa elevata, età e sesso, un particolare enzima e una proteina presenti nel sangue possono aiutare nell'identificare soggetti più esposti al rischio di ictus ischemico. A darne notizia è uno studio pubblicato sul Journal of American Medicine Association, il quale si è occupato di esaminare i livelli sanguigni di due marker infiammatori, la proteina C reattiva (CRP), e la lipoproteina associata alla fosfolipasi A2 (Lp-PLA2). Lo scopo dello studio era determinare se tali fattori fossero in qualche modo associati a un aumento del rischio di ictus di tipo ischemico. L'infiammazione svolge un ruolo importante nelle patologie cerebrovascolari, e ciò spiega perché si sia pensato di verificare l'associazione tra ictus e i livelli di proteina C reattiva (marcatore di infiammazione già utilizzato per prevedere eventi coronarici) e di lipoproteina associata alla fosfolipasi A2, che è un enzima proinfiammatorio secreto dai macrofagi e che circola legato principalmente al colesterolo LDL.

I livelli aumentano
I ricercatori hanno preso in esame i dati raccolti dall'Atherosclerosis Risk in Communities, studio che ha coinvolto quasi 13 mila uomini e donne, apparentemente sani, di età compresa tra i 45 e i 64 anni e che sono stati seguiti per un periodo di 6-8 anni. Tra questi sono stati selezionati 960 individui, di cui 194 avevano avuto un evento ischemico. I risultati hanno evidenziato dei livelli più elevati di proteina C reattiva e di Lp-PLA2 in coloro che successivamente erano stati colpiti da ictus, rispetto a chi non era andato incontro a evento ischemico. In particolare i più alti livelli di Lp-PLA2 e CRP aumentavano il rischio di ictus di 1,91 e 1,87 volte, rispettivamente, mentre negli individui che presentavano contemporaneamente i più alti valori di CRP e di Lp-PLA2 aumentava di 11,38 volte, rispetto a chi presentava i più bassi livelli di entrambi i marcatori. Ciò si verificava indipendentemente dalla presenza di ulteriori fattori di rischio: anche i livelli di colesterolo e trigliceridi non risultavano differire significativamente da un gruppo all'altro. Alla luce dei risultati, i ricercatori ritengono che il dosaggio della proteina C reattiva, e della lipoproteina associata alla fosfolipasi A2, possano costituire un metodo di diagnosi complementare, accanto all'identificazione dei tradizionali fattori di rischio, per identificare precocemente i soggetti a rischio di ictus. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per determinare se l'utilizzo di inibitori selettivi dell'Lp-PLA2 o la riduzione/inibizione della CRP siano in grado di prevenire l'evento ischemico.

Fonte
Ballantyne CM et al. Lipoprotein-associated phospholipase A2, high-sensitivity C-reactive protein, and risk for incident ischemic stroke in middle-aged men and women in the Atherosclerosis Risk in Communities (ARIC) study. Arch Intern Med. 2005 Nov 28;165(21):2479-84.





La cistatina C è un forte predittore del rischio di morte e di eventi cardiovascolari



La cistatina C è una misura della funzione renale, che sembra essere indipendente dall’età, dal sesso e dalla massa muscolare magra.

Una ricerca, coordinata dall’University of California, San Francisco ( UCSF ), ha messo a confronto i livelli di creatinina e di cistatina C come predittori di mortalità per cause cardiovascolari e di tutte le altre cause, in una coorte di persone anziane che vivevano in comunità.

Nel 1992 e nel 1993 sono stati prelevati campioni plasmatici da 4637 pazienti e sono stati misurati i livelli di creatinina e di cistatina C.
Il periodo di follow-up è continuato fino al 2001.

Più alti livelli di cistatina C erano direttamente associati ad un più alto rischio di morte per tutte le cause.

Rispetto al primo quintile, l’hazard ratio ( HR ) di morte è stato: secondo quintile, 1.08; terzo quintile, 1.23; quarto quintile, 1.34; primo terzo del quinto quintile, 1.77; secondo terzo del quinto quintile, 2.58; ultimo terzo del quinto quintile, 2.58.

Al contrario, la relazione tra le categorie di creatinina e la mortalità per qualsiasi causa era a forma di J ( J-shaped ).

Rispetto ai due più bassi quintili combinati ( livello di cistatina C minore o uguale a 0.99 mg/l ), il più alto quintile di cistatina C ( maggiore o uguale a 1.29 mg/l ) è risultato correlato ad un elevato rischio di morte per cause cardiovascolari ( HR = 2.27 ), infarto miocardico ( HR = 1.48 ) ed ictus ( HR = 1.47 ).

Rispetto al primo quintile, il quinto quintile di creatinina non ha mostrato alcuna correlazione in modo indipendente con nessuno di questi outcome.

Nelle persone anziane, la cistatina C è un predittore di rischio di morte e di eventi cardiovascolari più forte rispetto alla creatinina.

Shlipak MG et al, N Engl J Med 2005 ; 352 : 2049-2060

Nefro2005 Cardio2005 Neuro2005


 
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Mauro M
view post Posted on 20/8/2006, 19:46




Si è svolta recentemente a Basilea la 4° Conferenza Internazionale sul Metabolismo dell’Omocisteina. All’evento hanno partecipato i maggiori esperti mondiali del settore, nonchè autori della più significativa letteratura finora pubblicata sull’argomento; tra questi, il prof. Rosenberg e il prof. Selhub della prestigiosa Tufts University di Boston, la prof.ssa Refsum dell’Università di Oxford, i prof. Graham e Scott del Trinity College di Dublino.

Molte sono state le relazioni presentate nell’ambito della ricerca di base, come la biologia molecolare e la genetica, tutte mirate alla comprensione degli ancora poco noti e molteplici meccanismi con cui l’eccesso di omocisteina può causare danni metabolici ed organici a vari livelli.

L’iperomocisteinemia è infatti uno dei nuovi fattori di rischio, riconosciuto ormai da alcuni anni, per tutta una serie di patologie: dalle complicanze gravidiche alla trombosi, dalla coronaropatia allo stroke, dall’aterosclerosi dei vasi periferici al deficit delle funzioni cognitive nell’anziano e malattia di Alzheimer; vi sono anche alcune evidenze sperimentali che l’associano al rischio di carcinoma del colon-retto.

L’iperomocisteinemia è stata definita “il nuovo colesterolo" poichè, come l’ipercolesterolemia, è un “killer silenzioso" di significativo riscontro epidemiologico.

Analogamente al colesterolo, inoltre, la riduzione dei livelli plasmatici di omocisteina riduce il rischio di malattia. La terapia in grado di abbassare l’omocisteinemia, “la nuova statina‿ se si vuole proseguire nel paragone, è la supplementazione con i folati e la vitamina B12. La somministrazione di questi agenti terapeutici, efficaci, poco costosi e soprattutto privi di effetti collaterali, comporta una riduzione della concentrazione di omocisteina nel sangue mediamente del 30% rispetto ai valori basali.

Oltre a questo ben noto effetto di abbassamento dell’omocisteinemia, i folati sembrano però dimostrare ulteriori benefici terapeutici. Infatti, tra i dati clinici più nuovi ed interessanti presentati al Congresso vi sono quelli relativi agli effetti della supplementazione folica sulle alterazioni morfologiche e funzionali che sono alla base del processo aterosclerotico, come la disfunzione dell’endotelio, lo stress ossidativo e le alterazioni della parete vascolare.

Uno studio condotto da Ricercatori dell’Università di Cardiff ha dimostrato che alte dosi di 5-metiltetraidrofolato ( 5-MTHF ), la forma più fisiologica dei folati, migliorano significativamente e rapidamente ( risposta acuta entro poche ore ) la vasodilatazione endotelio-dipendente in pazienti coronaropatici.

Un altro studio italiano ( Ospedale S.Raffaele di Milano e Università Federico II di Napoli ) ha invece dimostrato una riduzione dell’escrezione urinaria di un marker dello stress ossidativo in vivo, l’isoprostano-8, in pazienti con pregressi eventi trombotici, trattati per 28 giorni con 15 mg/die di 5-MTHF.

Questo tipo di folato ha inoltre dimostrato in vitro di inibire l’ossidazione delle lipoproteine VLDL ed LDL in modo dose-dipendente ( studio dell’Università di Belfast ).

Infine, un gruppo di Ricercatori tedeschi ha presentato i risultati dello studio prospettico JAVIS ( Jena Atherosclerosis Vitamin Intervention Study ), che hanno dimostrato un significativo effetto di riduzione dello spessore della parete intima-media carotidea dopo 6 e 12 mesi di trattamento con folati in pazienti a rischio di ischemia cerebrale.

Alla luce di questi dati la Società Scientifica Europea D.A.CH.-Liga Homocysteine ha proposto delle linee guida per individuare i target di pazienti a rischio e definire l’approccio diagnostico e terapeutico dell’iperomocisteinemia.

Secondo questo gruppo di clinici la supplementazione farmacologica con folati dovrebbe rappresentare una decisione terapeutica di routine del medico nei pazienti con patologia cardiovascolare conclamata e nei pazienti a rischio cardiovascolare e cerebrovascolare.
Oltre al settore cardiovascolare, l’importanza del fattore di rischio iperomocisteinemia , e della terapia vitaminica , è stata sottolineata anche in campo ostetrico-ginecologico.

E’ noto ormai da tempo che gravi malformazioni congenite, come i difetti di chiusura del tubo neurale, sono eziopatogeneticamente correlati al deficit di folati. Ciò comporta l’alterazione delle vie metaboliche di metilazione e l’accumulo di omocisteina, che sembra esplicare anche un’azione embriotossica diretta sui processi di neurulazione. La supplementazione in epoca periconcezionale con folati è in grado di ridurre significativamente l’incidenza di queste malformazioni, tanto che ormai è entrata nella normale pratica clinica di controllo della gravidanza.

Molte altre complicanze gravidiche sono però associate ad elevati valori di omocisteina e bassi valori di folato: preeclampsia, ritardo di crescita intrauterina, poliabortività per citarne alcune. Si sta quindi affermando la convinzione che la supplementazione folica non sia da limitare al primo trimestre di gravidanza, ma vada continuata per tutta la durata della gestazione e da alcuni clinici è stata sottolineata l’opportunità di aggiornare le attuali lineeguida.

In conclusione, da questo Congresso è emerso che l’iperomocisteinemia rappresenta una condizione di rischio non solo come singolo fattore ma anche come fattore potenzialmente sinergico con altri fattori di rischio, quali l’iperlipidemia ed il fumo.

La terapia con i folati è in grado di correggere il dato biochimico dell’elevata concentrazione plasmatica di questo aminoacido solforato.



 
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Mauro M
view post Posted on 20/8/2006, 20:06




La Sindrome x sembrerebbe una terrificante malattia associata agli alieni ed ai film di fantascienza, invece è un “disturbo” che sta interessando un numero sempre crescente di europei.
La Sindrome x o Sindrome Plurimetabolica è una patologia caratterizzata dalla contemporanea associazione tra Diabete non insulino-dipendente (diabete mellito di tipo 2), l’Obesità e le Malattie Cardiovascolari.
Sebbene il meccanismo patogenetico che sottende la Sindrome x non sia pienamente conosciuto, la causa scatenante sembra essere l’Insulino-Resistenza, stato metabolico caratterizzato da una diminuzione della normale risposta degli organi bersaglio alle concentrazioni fisiologiche dell’ormone.
L’ormone c’è, a differenza del diabete mellito di tipo 1 in cui è completamente assente, ma non fa sentire in maniera adeguata i suoi effetti.
Dopo i pasti si verifica una situazione di accumulo di risorse energetiche: nel sangue circolante il glucosio è più elevato, assieme ad altre sostanze importanti come gli aminoacidi (provenienti dalle proteine) e gli acidi grassi (provenienti dai lipidi). A questo punto è necessario che l’organismo utilizzi o immagazzini queste risorse nelle sue cellule: ed ecco che interviene l’insulina, che è il mediatore centrale di questa funzione nutrizionale.
In parole semplici, il livello dell’insulina nel sangue si innalza e segnala che c’è un eccesso di risorse disponibili.
L’insulina si lega a dei recettori sulla superficie delle cellule, che sono come dei “campanelli” che avvisano l’interno della cellula che sono disponibili glucosio e altre molecole.
A questo punto la cellula, attraverso tutta una serie di segnali, apre delle speciali “porte” che permettono l’ingresso del glucosio, abbassandone quindi il livello nel sangue circolante ( in condizioni normali questo è l’effetto ipoglicemizzante dell’insulina).
Se questo meccanismo si inceppa in qualcuno dei suoi ingranaggi (il recettore oppure i segnali all’interno della cellula) viene a mancare l’effetto fisiologico: si verifica quindi l’Insulino-Resistenza delle cellule stesse e nel sangue la glicemia si mantiene elevata (iperglicemia). L’organismo (il pancreas), nel tentativo di compensare la situazione, cerca di aumentare la quantità di insulina per assicurarne l’effetto sulle cellule.
L’insulino-resistenza ed il possibile aumento dell’insulina circolante (iper- insulinemia) sono quindi gli effetti caratteristici di questo malfunzionamento a livello biochimico.
Oggi si ritiene che lo sviluppo della sindrome da insulino-resistenza sia dovuta dall’interazione da un lato di fattori genetici, cioè costituzionali dell’individuo e non modificabili, dall’altro di elementi ambientali, e quindi modificabili, quali l’inattività fisica, l’eccessiva e squilibrata alimentazione che promuovono, mantengono e/o peggiorano la sua espressione clinica.
E’ probabile che i fattori genetici che influenzano l’espressione delle zone cellulari del segnale dell’insulina siano attivati da fattori ambientali come l’obesità (grasso accumulato a livello addominale) e come le abitudini sedentarie, permettendo l’espressione, in ultima analisi, della predisposizione all’insulino-resistenza. Inoltre questi fattori manifestano una chiara associazione con le malattie cardiovascolari, come l’ipertensione, la cardiopatia ischemica (angina, infarto miocardico) e le vasculopatie cerebrali (attacchi ischemici, ictus), che nei paesi industrializzati dell’occidente rappresentano la prima causa di morte.
Questo insieme di sintomi clinici ha ricevuto la denominazione di Sindrome x, che vuole rappresentare appunto il riconoscimento di questo probabile legame di parentela tra queste diverse malattie.
La Sindrome x viene diagnosticata quando un individuo presenta tre o più dei fattori di rischio metabolici:
1. Obesità addominale: circonferenza della vita Uomini > 102 cm , Donne > 88 cm .
2. Alto livello di trigliceridi: >= 150 mg/dl
3. Basso contenuto di lipoproteine ad alta densità (HDL): Uomini =< 40mg/dl, Donne =< 50mg/dl.
4. Pressione sanguigna elevata: >= 140 mmHg sistolica, >=90 mmHg diastolica.
5. Alti livelli di glicemia a digiuno: >= 110 mg/dl.

Le strategie per il trattamento e la prevenzione della Sindrome x variano in base alle caratteristiche di ciascun individuo, ma quasi tutti gli esperti concordano sul fatto che i sintomi migliorano molto riducendo il peso corporeo, anche solo del 10% e aumentando l’attività fisica.
Il movimento è un fattore essenziale perché il muscolo è il tessuto più abbondante del corpo (il 30-40% della massa corporea è costituita da muscoli) ed è il luogo di maggior consumo di glucosio.
E’ importante svolgere una moderata attività fisica per almeno 30 minuti al giorno, quasi tutti i giorni.
Queste indicazioni, per essere efficaci, devono diventare parte integrante della vita quotidiana ed integrarsi a livello sociale.

Prima di iniziare un programma motorio dobbiamo considerare il fatto che l’obiettivo dell’esercizio fisico è quello di prevenire e trattare le comuni patologie metaboliche attraverso l’esercizio fisico, studiato in termini di Tipo, Intensità, Frequenza e Durata.
Il rispetto di questi parametri consente lo sviluppo di effetti positivi determinati dalla pratica di un Esercizio Fisico Costante e Regolare.
L’attività fisica motoria per essere utile da un punto di vista metabolico dovrebbe essere sia di Tipo Aerobico che Isotonica : ideali sono le attività a circuito (circuit training), dove l’attività aerobica è associata ad un allenamento di potenza. Per attività aerobica si intende un’attività fisica pianificata, ripetitiva, che a livello muscolare si svolge in presenza di ossigeno , ad una intensità sub-massimale ed ha come obiettivo il miglioramento della forma fisica.
L’intensità di lavoro è pari al 60%-75% della propria frequenza cardiaca massima (f.c.m.= 220-età esempio: 220 – 30 anni = 190 190 x 60%= 114 190 x 75%= 142).
Il tempo da dedicare ogni volta all’attività fisica deve essere di 30-60 minuti, per una frequenza settimanale di 3-5 volte.
Questi parametri possono essere adattati a particolari situazioni: diabete associato all’obesità o diabete associato a malattie cardiovascolari.
Nel primo caso l’attività aerobica viene svolta ad una intensità bassa ( 60-70% della f.c.m.), per consentire una lunga durata dell’esercizio ( 45-60 minuti) al fine di ottenere una prevalenza di substrati lipidici nella produzione dell’energia. La frequenza settimanale è di 3-5 volte.
Nel secondo caso l’attività fisica viene esercitata ad una intensità molto bassa pari al 50-60% della f.c.m., la durata è di 30-60 minuti per ogni allenamento, per almeno 4-5 volte la settimana.
Proponiamo di seguito due programmi motori, uno per utenti diabetici ed obesi adulti, e l’altro per soggetti con complicazioni cardiovascolari.

Il primo programma motorio lo possiamo suddividere in due fasi:
1. Fase: Ricondizionamento generale
2. Fase: Attività fisica ad impegno prevalentemente aerobico

1. La fase di ricondizionamento generale comprende: esercizi di respirazione, esercizi di mobilità articolare(arti superiori, arti inferiori, colonna vertebrale) , esercizi di tonificazione muscolare (addome, glutei, schiena, arti superiori, arti inferiori).
Considerando che il più delle volte la persona diabetica ed obesa è una persona sedentaria lo scopo del ricondizionamento generale è quello di indurre adattamenti a carico dei vari organi ed apparati, tali da permettere al soggetto di affrontare esercizi fisici più impegnativi.
Proposte motorie:
a) Esercizio di respirazione diaframmatica:distendersi in posizione supina con gli arti inferiori piegati, piedi in appoggio sul pavimento, le mani sopra l’addome, occhi chiusi, si esegue una inspirazione lenta e profonda. Si percepisce con le mani che l’addome si gonfia mentre l’aria entra e si sgonfia quando l’aria esce durante l’espirazione e le mani si abbassano passivamente.
Esercizio di respirazione toracica alta: distendersi in posizione supina con gli arti inferiori piegati, piedi in appoggio sul pavimento, le mani sono appoggiate sulla parte alta del torace e sullo sterno, si inspira profondamente e lentamente in modo che le mani si alzano passivamente quando l’aria entra e sia abbassano quando l’aria esce durante l’espirazione.
Utilizzare entrambi gli esercizi di respirazione per cinque o sei volte fino a quando il respiro prosegue da solo.
b) Esercizio per mobilizzare la schiena. Posizione di partenza: distendersi in posizione supina con gli arti inferiori piegati, piedi in appoggio sul pavimento, con gli arti superiori flessi ed extraruotati ai lati delle spalle (posizione a candeliere). Eseguire la retroversione del bacino, mantenerla distendendo in alto lentamente gli arti superiori, cercando di mantenere i contatti delle mani, dei polsi e dei gomiti sul pavimento, ritornare nella posizione di partenza (10 ripetizioni per 5 volte).
c) Esercizio per mobilizzare gli arti superiori e inferiori. In posizione eretta, gambe distese e moderatamente divaricate, braccia in avanti. Effettuare una pronosupinazione (ruotare le mani di 180°) delle mani (10 rip. x 5 volte), flettere gli avambracci sulle braccia fino a toccare con le mani le spalle (10 rip. x 5 volte), con le mani appoggiate sopra le spalle ruotate le braccia intorno alle spalle (10 rip x 5 volte in senso orario e 10 rip. x 5 volte in senso antiorario).
In posizione supina, si sollevano uno alla volta gli arti inferiori distesi e ritorno , poi uno alla volta si flettono al petto e ritorno. L’arto controlaterale è piegato e appoggiato sul pavimento (10 rip. x 5 volte).
d) Esercizio per tonificare i muscoli addominali: Ci si distende in posizione di decubito supino, mani alla nuca, gomiti aperti, gambe flesse, piedi in appoggio sul pavimento, si chiudono i gomiti, si espira e si flette il busto in avanti fino a 30° (arrotolamento del capo sul collo, del collo sulle spalle, delle spalle sul tronco, del tronco sul ventre) e ritorno (20 rip. x 3 volte).
e) Esercizio per tonificare gli arti inferiori ed i glutei: in stazione eretta, schiena appoggiata alla parete, gambe divaricate (larghezza corrispondente al bacino), mani ai fianchi. Piegare gli arti inferiori fino a quando le ginocchia non oltrepassano la punta dei piedi e ritorno in stazione eretta (20 rip. x 3 volte).

2. L’attività fisica di tipo aerobico o gli sport di tipo aerobico comprendono: camminata a passo svelto (4-5km/h), corsa lenta, jogging, bici, cyclette, ballo, danza, ciclismo, nuoto, sci di fondo.
( L’attività aerobica deve durare 30’- 60’ ,escluso il tempo di riscaldamento e defaticamento di 8’ ognuno, per 4-5 volte alla settimana)

Il secondo programma motorio si divide in due fasi:
1. Fase: Rieducazione motoria
2. Fase: attività fisica ad impegno prevalentemente aerobico.

1. Un ciclo di rieducazione motoria comprende esercizi di rilassamento, respirazione, allungamento muscolare, trofismo muscolare, esercizi di chinesiterapia libera.
E’ consigliato l’uso di piccoli attrezzi come palline di spugna, bastoni, elastici…
Esempio di alcuni esercizi che vengono fatti svolgere durante un ciclo di rieducazione motoria:
a) Posizione Supina: Distendersi con le braccia lungo i fianchi, palmi delle mani rivolte verso il basso, mantenere una respirazione naturale ed eseguire delle circonduzioni dei piedi (10 rip. x 5 volte in senso orario e 10 rip. per 5 volte in senso antiorario); flettere ed estendere contemporaneamente i piedi (10 rip. x 5 volte); piegare la gamba destra facendo scivolare il tallone sul pavimento e ritorno (10 rip. x 5 volte), ripetere con la gamba sinistra; portare il ginocchio destro al petto e mantenere la posizione 2-3 secondi e ritorno, ripetere con l’arto sinistro (10 rip. x 5 volte).
b)Posizione Seduta, con gambe e braccia distese in avanti, flettere il busto in avanti fino alla propria massima distensione e senza forzare (mantenere la posizione per 1 minuto, ripetere 5 volte). Ripetere l’esercizio divaricando le gambe (1 minuto per 5 volte).
c) In piedi: gambe distese e leggermente divaricate, braccia in avanti. Impugnare il bastone con entrambe le mani alla stessa larghezza delle spalle, i pollici delle mani rivolti verso l’interno.
Con braccia distese, portare il bastone verso l’alto e ritorno (10 rip. x 5 volte).
Gli esercizi proposti sono solo un piccolo esempio di come strutturare una seduta.

2. L’attività fisica aerobica favorisce la resistenza cardiovascolare, un parametro fondamentale nella prevenzione primaria e secondaria delle malattie cardiovascolari.
Si consiglia durante l’attività fisica l’uso del cardiofrequenzimetro o in alternativa il controllo della frequenza cardiaca con il polso. Le proposte motorie nell’ambito di questa fase sono: camminata a passo svelto (4- 5 Km ./h.), corsa lenta, jogging, bici, cyclette, ballo, danza, ciclismo, nuoto, sci di fondo.

E’ bene ricordarsi di bere prima di avvertire il senso della sete.
Da un punto di vista metodologico gli esercizi devono rispondere ai principi di consapevolezza, progressività, continuità.
Sarà inoltre bene tenere un “diario” dove registrare l’attività, ricordando che l’esercizio produce un effetto immediato (rossore /pallore,dispnea, ecc...), un effetto durante l’attività fisica, un effetto dopo l’esercizio, ed un effetto postumo come ad esempio la presenza di indolenzimenti il giorno seguente o la sera.




 
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Mauro M
view post Posted on 21/8/2006, 12:45




Presto aggiorneremo con un nuovo Profilo di Rischio Cardiovascolare, Cerebrovascolare e Oncologico.
 
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Mauro M
view post Posted on 3/9/2006, 09:42




Ricerche e conferme di sospetti.

La presenza di DNA di Chlamydia pneumoniae a livello del sistema nervoso centrale è associata a sclerosi multipla recidivante-remittente in un sottogruppo di pazienti
Ricercatori dell’Università di Ferrara hanno studiato il legame esistente tra Chlamydia pneumoniae e la sclerosi multipla.
Sono stati analizzati campioni di liquido cerebrospinale di 71 pazienti affetti da sclerosi multipla e di 72 pazienti con altri disturbi neurologici infiammatori o non infiammatori.
Mediante n-PCR (nested polymerase chain reaction ) è stata ricercata la presenza di DNA di Chlamydia pneumoniae con l’amplificazione di sequenze target di geni codificanti per la proteina maggiore presente sulla membrana più esterna del batterio ( MOMP ), l’ RNA ribosomale 16S e la proteina Hsp-70.
Le analisi di PCR sono risultate positive nel 36.6% dei campioni dei pazienti con sclerosi multipla, nel 28.1% dei campioni dei pazienti con disturbi neurologici infiammatori e nel 37.5% dei campioni dei pazienti con disturbi neurologici non infiammatori, senza alcuna differenza statistica tra i vari gruppi esaminati.
La presenza di Chlamydia pneumoniae nel liquido cerebrospinale è stata riscontrata con maggiore frequenza tra i pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente che non nella sclerosi multipla progressiva secondaria ed in quella progressiva primaria, nella sclerosi multipla clinicamente attiva che non in quella clinicamente stabile, e nella sclerosi multipla attiva alla risonanza magnetica per immagini ( RMI ) che in quella inattiva alla RMI.
Questo studio ha confermato che la Chlamydia pneumoniae è rintracciabile all’interno del sistema nervoso centrale non solo nei pazienti con sclerosi multipla, ma anche nei pazienti con altre malattie neurologiche.
Inoltre, i risultati ottenuti hanno indicato che il DNA di Chlamydia pneumoniae si riscontra nel liquido cerebrospinale di un sottogruppo di pazienti con sclerosi multipla in forma recidivante-remittente attiva clinicamente e alla risonanza magnetica per immagini.
In questi pazienti l’infezione cronica persistente da Chlamydia pneumoniae a livello cerebrale può avere un ruolo significativo nello sviluppo della malattia.



Infezioni a carico di un batterio noto per bronchite e mal di gola, Chlamydia pneumoniae, potrebbero essere complici di infarto e ictus suggerendo che antibiotici per persone a rischio potrebbero contribuire a prevenire eventi cardiovascolari che rappresentano i big killer nel mondo occidentale. È quanto emerso al 158° Meeting della Society for General Microbiology presso la University of Warwick, in Gran Bretagna. Secondo molteplici evidenze scientifiche presentate da Lee Ann Campbell della University of Washington in Seattle, la Chlamydia pneumoniae sarebbe presente nelle placche aterosclerotiche e sarebbe inoltre capace di accelerarne la crescita e favorirne la rottura. Gli esperti hanno eseguito una serie di studi per rilevare un nesso tra infezioni da Chlamydia pneumoniae e rischio cardiovascolare. In primo luogo i clinici hanno visto che individui con anticorpi anti-Chlamydia hanno maggior rischio di infarto e ictus. Poi, hanno studiato campioni di tessuto arterioso di pazienti con aterosclerosi trovando in oltre un caso su due la presenza del batterio. Invece Chlamydia pneumoniae non è mai presente nel campione di tessuti dei vasi di individui senza aterosclerosi. Chlamydia pneumoniae è stata trovata anche nelle cellule del tessuto ateromatoso in pazienti con aterosclerosi. E non è tutto: studi su animali mostrano che l'infezione da Chlamydia pneumoniae favorisce la crescita di placche aterosclerotiche e la loro rottura.




Edited by Mauro M - 3/9/2006, 10:58
 
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Mauro M
view post Posted on 3/9/2006, 10:37




Alcune tipi di endocardite hanno origine batterica e sono provocate da Staphylococcus aureus. Questa specie Gram-positiva è patogena per l'uomo a causa sia di alcune componenti cellulari, come la cosiddetta proteina A, sia di enzimi e tossine che i batteri riversano nell'ambiente extracellulare, quali le coagulasi e le enterotossine. È responsabile anche di varie infezioni che colpiscono la pelle, le vie respiratorie, l'apparato digerente e il sangue.
Il batterio è la causa più frequente di endocardite poiché è facile che in seguito a manovre odontoiartiche o a chirurgia delle alte vie aeree possa entrare in circolo e aderire a preesistenti lesioni endocardiache. Successivamente si possono distaccare emboli da colonie, che si localizzano in vari organi favorendo lo sviluppo di una sepsi o che può evolvere in shock.

Lo shock viene causato anche dalla liberazione della tossina TSST che causa uno stato infiammatorio sistemico con possibilità di complicanze.

Altre infezioni
In seguito al passaggio in circolo o alla penetrazione tramite ferite profonde il microorganismo potrebbe localizarsi in vari organi dove genera infezioni purulente dei muscoli, delle articolazioni, delle ossa (osteomielite), o raramente menigite a liquor torbido (~1%).



Batteri sotto controllo senza uso di antibiotici

Un metodo per controllare l’attività batterica senza antibiotici, interferendo con il loro processo di comunicazione è stato sviluppato da un giovane ricercatore dell’Università di Gerusalemme.
Per il suo lavoro, Adel Jabbour riceverà il premio Kaye Innovation il 6 giugno durante il 68esimo incontro dell’assemblea dei governatori dell’Università di Gerusalemme. Jabbour, studente per un Ph.D, ha svolto il suo lavoro sotto la supervisione del prof. Morris Srebnik, della scuola di farmacia, e del prof. Doron Steinberg, della facoltà di medicina dentale. Anche Moshe Bronstein sta lavorando al progetto.
La maggior parte delle malattie umane e animali sono associate con i batteri che si riuniscono in “comunità”, chiamate biofilm, che si attaccano a molte superficie, come i tessuti viventi, impianti e denti. Biofilm si possono trovare anche su superficie artificiali, come tubi dell’acqua o condotti per l’aria condizionata.
Solo recentemente è stato scoperto che i batteri assemblati in biofilm hanno una rete di comunicazione tra loro chiamata “quorum sensing”, che controlla la loro attività collettiva (o la sua mancanza). Questi segnali sensoriali controllano la fisiologia e la patogenicità dei batteri nei biofilm. Una molecola a base di boro che è prodotta da questi batteri, chiamata Auto-inducente-2, controlla i segnali in questo processo di quorum sensing.
Jabbour è riuscito a sintetizzare composti chimici modificati, simili alla struttura dell’Autoinducente-2 naturale, che possono sconvolgere la segnalazione. Alterando la struttura molecolare in questi composti, Jabbour è riuscito a dimostrare che è possibile controllare le risposte del quorum sensing al fine di “ingannare” i batteri. I composti modificati distorcono la segnalazione che scatena i cambiamenti batterici, rendendo possibile ostacolare seriamente l’azione batterica o, volendo, perfino aumentarla (nei casi in cui i batteri sono benefici).
Il controllo sul quorum sensing apre una strada promettente per il futuro trattamento di attività batterica patogena senza dover ricorrere a farmaci antibiotici con tutti gli svantaggi che li accompagnano. D’altra parte, aumentare il quorum sensing potrebbe rivelarsi utile in agricoltura, biotecnologia e industria alimentare, dove l’aumento dell’attività batterica sarebbe benefico.
Un brevetto americano è già stato richiesto per i composti sviluppati da Jibbour, ed un’ulteriore commercializzazione è in corso di negoziazione attraverso la Yssum Research Development Company dell’Università di Gerusalemme.
Jabbour, 32 anni, vive a Nazareth superiore con la moglie Banan, una pediatra dell’ospedale dell’Università di Hadassah a Ein Kerem. Ha studiato alla St. Joseph High School di Nazareth e si è laureato in chimica all’Università di Gerusalemme, e poi anche in farmacia. Attualmente sta completando gli studi per il Ph.D alla scuola di Farmacia e all’Istituto di Scienze dentali dell’Università, sotto la supervisione dei professori Srebnik e Steinberg.

(Da: Dept. of Media Relations, Università di Gerusalemme, 2.06.05)

 
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view post Posted on 27/11/2006, 15:00
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Rispolvero il post, vista la sua utilità.

Tempo fa ho letto un articolo su Nexus riguardo il Progetto Gilgamesh di Andrew Sokar e mi sembra attinente alla discussione. Volevo trascriverlo da un pò e....forse aspettavo che lo facesse qualcun altro. Eccolo, infatti:
"Il Progetto Gilgamesh
Una leggenda sumera risalente a migliaia di anni prima dell’era biblica narra di un personaggio eroico di nome Gilgamesh il quale dedica la sua esistenza alla ricerca della vita eterna. Dopo aver a lungo peregrinato costui trova una pianta subacquea capace di conferirgli l’agognata immortalità; ma una volta trovata si addormenta lasciandola incustodita. Un serpente fiutandola la divora e, come conseguenza del fatto, perde la pelle ridiventando giovane. Da qui nasce la spiegazione mitologica della muta della pelle del serpente che permette a quest’ultimo di “rinnovarsi”; all’uomo purtroppo non è dato questo privilegio, al contrario a causa della sconsideratezza di Gilgamesh, egli è destinato ad invecchiare e poi a morire.

Questa leggenda ha attirato l’attenzione di Andrew Sokar (prodigioso biologo statunitense), il quale, in virtù di alcuni dei suoi studi, è stato spinto a chiedersi se le antiche leggende relative ad esistenze umane favolosamente lunghe non possano avere un fondamento nella realtà. Questo enfant prodige è stato messo a tacere più volte dal mondo “scientifico”, soprattutto quando i suoi studi hanno cominciato a sfiorare il segreto della vita eterna. Egli ha avuto molti riconoscimenti a suo nome per le ricerche sul cancro, ma il suo spingersi sempre oltre, senza incasellamenti di alcun genere (tanto meno quelli del mondo scientifico entro il quale egli si è formato) lo ha portato ad essere un escluso.

Fin dai tempi delle superiori, si è dedicato ad esperimenti di chimica organica sintetica in un improvvisato laboratorio casalingo; il suo interesse iniziale è stato quello di elaborare nuove sostanze chimiche non tossiche destinate al controllo degli animali infestati. In seguito si è dedicato a creare modalità, sempre non tossiche, per la cura del cancro e per le quali in età adulta ha vinto un primo premio alla fiera scientifica di Boston, oltre che un’attestazione di eccellenza per l’elaborazione di nuove classi di farmaci antineoplastici (farmaci anticancro).

Al college ha continuato le sue ricerche per svelare i misteri relativi al modo in cui le cellule cancerose si sviluppano e metastatizzano, elaborando nuove classi di composti capaci di bloccare quasi del tutto l’ invasione ( il processo tramite il quale le cellule cancerose si trasferiscono nei tessuti sani); tali composti erano essenzialmente non tossici!

Fino a quel tempo e agli inizi della sua carriera universitaria presso la Facoltà di Medicina, Sokar ha avuto la fortuna di incontrare docenti che credessero nel suo talento e nelle sue ricerche mettendogli a disposizione laboratori e vari sovvenzionamenti; questo lo portò a sviluppare una prospettiva completamente inedita su questioni quali la durata della vita umana, il cancro ed altre affezioni che i docenti del biologo descrivevano come fenomeni non correlati.

1.1 Svelare i misteri dell’età

Anche se la scienza medica possiede una notevole conoscenza delle fasi del ciclo della crescita cellulare, e delle trasformazioni cellulari ed istologiche che le compongono, i meccanismi biochimici che determinano tali cambiamenti sono, nel migliore dei casi, scarsamente definiti.

Questa è la ragione per cui le attuali terapie, destinate a stati patologici che (come il cancro) comportano una rapida ed incontrollata divisione cellulare, consistono perlopiù nell’avvelenamento delle cellule nocive con farmaci tossici (chemioterapia), nella somministrazione di radiazioni (radioterapia) oppure nella loro rimozione tramite intervento chirurgico; in ogni caso ad una ignota, rapida ed incontrollata divisione cellulare, la medicina ortodossa reagisce aggredendo a sua volta in una sorta di braccio di ferro.

La comprensione poi dei meccanismi che stanno alla base del processo di invecchiamento delle nostre cellule lascia ancora più a desiderare. Attualmente non disponiamo virtualmente di alcuna terapia che possa efficacemente bloccare o quantomeno rallentare il decantato orologio biologico, per ora, quello che è in nostro potere, è solo occultare i segni dell’invecchiamento.

Riuscire ad individuare i precisi fattori che regolano il comportamento delle cellule in momenti specifici del loro ciclo di crescita, porta ad un enorme progresso nella comprensione non solo della genesi del cancro, ma anche dell’ antico problema concernente il perché gli animali, essere umani inclusi, invecchiano ed infine muoiono.

1.2 Lo stato attuale delle ricerche sulla longevità

Per superare le limitazioni delle attuali concezioni convenzionali inerenti la crescita e la differenziazione delle cellule, è necessario riesaminarle in breve. A riguardo degli argomenti sopra citati, la medicina oggi si basa, nella maggior parte dei casi, sull’approccio fondato sui radicali liberi.

Questa concezione sostiene che le disfunzioni cellulari che determinano il cancro, nonché l’invecchiamento ed infine la morte delle cellule, siano causate dall’azione distruttiva esercitata dai radicali liberi ambientali su varie importanti componenti cellulari come il DNA.

Secondo tale prospettiva fatalistica, l’invecchiamento può essere visto come un irreversibile ed inevitabile accumulo di danno cellulare; Sokar è convinto che tale concezione sia errata, quantomeno in parte. Egli non crede affatto che “ogni cosa vivente deve invecchiare e morire”, e la dimostrazione di ciò sta nel fatto che molti organismi unicellulari sono immortali e si riproducono dividendosi indefinitamente, per soccombere solo a catastrofi ambientali (o ad esempio alla candeggina, per i batteri presenti nei nostri indumenti sporchi).

Analogamente esistono organismi pluricellulari per i quali il concetto di invecchiamento è privo di senso come nel caso delle sequoie giganti, delle aragoste o addirittura in quei casi in cui, attraverso le manipolazioni ormonali si può impedire la metamorfosi di alcuni insetti e mantenerli a tempo indefinito in uno stato giovanile. I sistemi ormonali rivestono una grande importanza per la sopravvivenza di una serie di organismi molto diversi tra loro, e per tale motivo Sokar, dopo aver fatto una serie di osservazioni[1] ha tratto la conclusione che i mammiferi possiedono sistemi che sono analogamente funzionali, anche se è possibile che la chimica specifica sia diversa.



Un secondo approccio alla comprensione del processo di invecchiamento postula che crescita, differenziazione, invecchiamento e morte delle cellule non siano l’unico risultato del danno cellulare accumulato o di qualche inarrestabile orologio biologico che risiede esclusivamente nelle cellule ma, invece, che questi siano fenomeni mediati a livello ormonale.

L’interazione dei geni di una cellula con le sostanze chimiche presenti nella matrice extracellulare prodotte in qualche remota parte dell’organismo, determina un’alterazione del funzionamento delle cellule stesse che degenerano; tale concezione è corroborata dalle ricerche sulla progeria (conosciuta meglio come invecchiamento precoce) sindrome che comporta il malfunzionamento di varie ghiandole endocrine, per cui la persona che ne è affetta invecchia rapidamente e di solito muore prima di aver raggiunto i venti anni di età.

Questa patologia indica con forza che l’orologio biologico può essere resettato ed accelerato, e tale accelerazione è associata al collasso della ghiandola pineale (grande quanto ad un pisello situata al centro del cervello) e dell’intero asse ipotalamico-pituitario; quindi la mancata secrezione di ormoni vitali da parte di queste ghiandole provoca nell’organismo cambiamenti degenerativi solitamente associati all’invecchiamento e come conseguenza alla morte.



Gli studi di Sokar su vari ormoni implicati in questo processo lo ha portato a concludere ad esempio che la melatonina, secreta dalla ghiandola pienale, riveste un ruolo importante non solo nel ciclo sonno-veglia ma anche nel prolungare la durata della vita e, in alcuni casi, nel bloccare e persino invertire alcuni dei sintomi dell’invecchiamento; in più questo ormone svolge anche un’attività anticancro[2].


Gli effetti anti-invecchiamento ed anticancro della melatonina sono dovuti, almeno in parte, al fatto che questo ormone, lasciata la ghiandola pineale (dove viene prodotto) si trasferisce al timo (situato dietro lo sterno) e ad altre ghiandole endocrine dove agisce come ormone di rilascio, modulando la sintesi di almeno altri due ormoni (riconosciuti dalla scienza medica) che Sokar chiama per semplicità X e Y.

Sono i livelli di questi ormoni nel nostro organismo a modulare la crescita cellulare, l’invecchiamento e i fenomeni di differenziazione; questi due ormoni (X e Y) con la melatonina si influenzano reciprocamente e secondo Sokar la produzione di queste sostanze è controllata da complessi circuiti di feedback che coinvolgono vari tipi di altri ormoni come quelli sessuali e tiroidei. Questa cosa spiegherebbe anche perché la prevalenza del cancro in genere aumenta in concomitanza con l’invecchiamento (quindi con la diminuzione di questi ormoni nel sangue) e la differenziazione sessuale e quella di altri tessuti declina nel medesimo intervallo di tempo.

Sokar quindi riformula la definizione di cellula cancerosa, definendola come una normale cellula che è regredita ad uno stato dedifferenziato vale a dire che assomiglia a cellule embrionali indifferenziate che si dividono rapidamente, invece che ad una normale cellula dal comportamento appropriato che si divide lentamente propria dei tessuti da cui deriva. I ricercatori tutti sono inoltre consapevoli del fatto che le cellule del cancro sono di fatto immortali se inserite in un ambiente appropriato che permette loro di vivere e riprodursi, e che l’unico vero modo per bloccarle è quello di modificare il programma per il quale queste cellule degenerano. Questo aspetto indica che il cancro non è uno stato di per sé patologico, bensì un problema dello sviluppo, proprio come l’invecchiamento; non è che le cellule cancerose funzionino male, semplicemente si comportano in modo inappropriato rispetto alla loro età, un problema dunque relativo all’orologio biologico.

Dato che la melatonina e gli ormoni X e Y sono ormoni che modulano i nostri ritmi, il nostro orologio biologico, è oltretutto spiegato anche perché essi hanno effetti anticancro.

Questi ormoni (come la vitamina A) penetrano nella membrana cellulare e quindi si trasferiscono al nucleo, dove stimolano ed inibiscono i geni che regolano il ciclo della crescita delle cellule, approccio questo assai più raffinato ed antitetico alla modalità d’azione di tutti i farmaci anticancro esistenti, i quali non sono altro che veleni progettati per eliminare le cellule che si dividono rapidamente.

I composti che Sokar ha elaborato sono una terapia non tossica per il cancro, essi eliminano tutti gli effetti collaterali, orribili quanto disumani a volte, associati alle attuali terapie; inoltre se l’asse melatonina-ormoneX-ormoneY è davvero responsabile della regolazione delle modalità di comportamento delle cellule in specifiche fasi del loro ciclo vitale, sarebbe anche spiegato perchè come sostiene il Dott. Hamer, ci si può ammalare di cancro a causa di un grande dolore!

Infatti anche in questi casi, come nella senescenza, i livelli degli ormoni X e Y si abbassano e non sono più sufficienti a mantenere determinate cellule in uno stato differenziato, inoltre il sistema immunitario, le cui cellule dipendono da specifici quantitativi di X e Y, non è più in grado di svolgere la propria funzione di eliminare adeguatamente le cellule cancerose.

Sokar ha ricevuto critiche davvero corrosive e attacchi di ogni genere, questo però non lo ha fermato, anzi lui stesso è convinto che se è stato così fortemente e misteriosamente boicottato è perché è sulla strada giusta, verso qualcosa di davvero interessante e ringrazia i suoi “aguzzini” (come lui stesso li apostrofa) per avergli involontariamente confermato che è senza ombra di dubbio sulla strada giusta!"
Tratto da: link
Fonte originale: IL PROGETTO GILGAMESH” da NEXUS New Times n.59; edizione italiana Dicembre 2005- Gennaio 2006.
 
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oro
view post Posted on 3/12/2006, 00:41




Parkinson: ricrescono le fibre nervose
Neuroni rigenerati grazie a GDF scoperti da Montalcini

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Uno studio pubblicato sul numero di luglio della rivista Nature Medicine da ricercatori del Frenchay Hospital di Bristol e dell’Università di Londra, diretti da David Brooks e Seth Love, offre la prima convincente evidenza che il GDNF (Glial Derived Neurotrophic Factor, cioè fattore neurotrofico di derivazione gliale) fa davvero ricrescere le fibre nervose dopaminergiche, la cui degenerazione costituisce il marchio della malattia di Parkinson. Resta ora da verificare se le connessioni riattivate dal GDNF nel cervello dei parkinsoniani funzionano al 100 per cento come quelle originali.
La somministrazione
La terapia con il GDNF non è facile a causa di un problema "tecnico": la difficoltà di farlo arrivare nelle aree cerebrali malate. Questa sostanza, infatti, non può essere somministrata sotto forma di pastiglia o d'iniezione, ma deve arrivare direttamente sul bersaglio cerebrale. Fortunatamente negli ultimi anni sono state sviluppate tecniche ultraprecise che si basano sull'inserimento millimetrico di microscopiche cannule intracerebrali collegate a una micropompetta a pile "eterne" inserita sottocute nel torace vicino alla clavicola e che rilascia continuamente gocce infinitesimali della sostanza terapeutica, realizzando un trattamento a metà strada fra la terapia sintomatica e quella davvero curativa. Un vantaggio non indifferente è la pulizia dell'azione di questo tipo di trattamento che può essere sempre praticato a tutti i pazienti, perché, facendo direttamente centro sul bersaglio, evita ad esempio le interazioni che spesso complicano l'utilizzo di più farmaci nello stesso paziente, come può accedere in soggetti anziani come i parkinsoniani. Ma anche con queste nuove metodiche i guai non sono mancati, tant'è che un precedente studio simile a quello dei ricercatori di Bristol era stato abbandonato perché l'effetto veniva vanificato da anticorpi contro il GDNF.

Dal punto di vista clinico, l'efficacia sui sintomi è comunque stata sempre significativa, anche se finora era sempre mancata la prova che a questi miglioramenti clinici corrispondesse anche un recupero delle cellule nervose danneggiate dalla malattia.
Precedenti
Quattro anni fa, Brooks e i suoi collaboratori avevano scelto 5 pazienti da sottoporre a infusione continua di GDNF con microcannula inserita nel putamen posteriore, una delle aree cerebrali che nella malattia di Parkinson subisce la maggior perdita di neuroni dopaminergici. La stessa metodica era già stata usata dai ricercatori inglesi anche in un altro studio con cui avevano dimostrato che, anche dopo 2 anni di utilizzo continuo, gli effetti collaterali sono minimi e le alterazioni motorie da levodopa si riducono del 57 per cento.. Basandosi sulle scale classicamente usate per monitorare questi parametri avevano anche osservato come i punteggi relativi alle attività quotidiane e alla qualità di vita dei pazienti migliorino del 63 per cento. Anche in quest'ultimo studio di Nature Medicine le scale di valutazione della sintomatologia parkinsoniana hanno testimoniato l'efficacia del GDNF dopo 24 mesi di trattamento, con un miglioramento della funzione motoria pari al 38%. Allo stesso modo la qualità di vita di vita dei pazienti è cresciuta subito del 75% per assestarsi dopo 19 mesi al 70%. Ma, ancora una volta, mancava la dimostrazione che ai miglioramenti clinici corrispondesse un ripristino delle fibre nervose danneggiate dalla malattia. Improvvisamente, però, uno dei cinque pazienti, un sessantaduenne che presentava tremore soprattutto nella parte sinistra del corpo e al quale la microcannula era stata quindi impiantata nel putamen postero-dorsale di destra, è deceduto per infarto.
La prova
E' stato così possibile verificare per la prima volta sul cervello del paziente se il GDNF aveva ripristinato i neuroni danneggiati dalla malattia: lo studio ha fornito la prima evidenza istologica e immunochimica che l'infusione aveva innescato una marcata ricrescita dei neuroni dopaminergici soprattutto vicino allo sbocco della microcannula, un effetto che invece non si era verificato in egual misura sull’altro lato del cervello, dove permanevano estese aree di perdita cellulare. «C'erano ancora dubbi sull'efficacia del GDNF nel trattamento di questa malattia - commenta Alfredo Berardelli, direttore del Dipartimento di Scienze Neurologiche della Sapienza che ha organizzato a Roma il Congresso Internazionale 2004 su Parkinson e Disturbi del Movimento, svoltosi per la prima volta in Italia - perché era sempre mancato un riscontro obbiettivo del miglioramento sintomatologico. Proprio al convegno mondiale dell'anno scorso, l'americano James Nutt ha presentato uno studio con infusione del GDNF nel putamen e i suoi pazienti avevano tutti presentato un marcato miglioramento, senza pesanti effetti collaterali. Ma nemmeno Nutt aveva fornito le prove istologiche di una reinnervazione neuronale. Adesso che la prova è arrivata occorrerà verificare se le fibre nervose fatte ricrescere dal GDNF sono funzionali come quelle originali, o se si tratta solo di una ricrescita fine a se stessa».
Fonte: Corriere (02/09/2005)
 
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flipperina
view post Posted on 15/7/2007, 10:56




CITAZIONE (oro @ 6/11/2005, 12:13)
Breve rassegna Metalli Tossici.

Piombo.

I segni di tossicità sono: encefalopatia, atassia, iperattività, disturbi del linguaggio, disturbi motori, disturbi dell'apprendimento, aggressività.

Gli organi più colpiti sono reni, fegato e pancreas nonchè cervello e sistema nervoso. Il Piombo è la neurotossina per eccellenza in quanto capace di creare danni nelle cellule del corno anteriore, cervelletto e nervi periferici. Il Piombo altera la biodisponibilità di tutti i principali neurotrasmettitori come dopamina, serotonina, adrenalina, noradrenalina e acido gamma-amminobutirrico (GABA).
Studi recenti conducono a ritenere i livelli elevati di questo metallo come causa della SIDS poichè bloccano la catena respiratoria cellulare.
Livelli elevati deprimono la risposta immunitaria cellulo-mediata e incrementano la produzione di radicali liberi, questo favorisce patologie come cancro e varie malattie cronico-degenerative . Il Piombo interferisce con quasi tutti gli enzimi deputati alla sintesi dell'emoglobina, favorendo lo sviluppo di anemia da Piombo.

Manifestazioni generali.

Vertigini. Artrite reumatoide. Disturbi mestruali. Convulsioni. Sclerosi Multipla. Iperattività. Calo della libido. Epilessia. Disfunzioni epatiche. Nefrite. Diabete. Cancro. Infertilità. Stipsi. Osteoporosi. Osteoartrite. Gotta. Piorrea. Encefalite. Disturbi neuromuscolari. Cecità. carie dentarie. Impotenza. Allucinazioni. Sordità.

Effetti sulla psiche.

Ritardo mentale. Ansietà. Incubi notturni. Psicosi. depressione. Perdita di memoria. Perdita di concentrazione. Cambiamenti di umore. Eccitazione. Schizofrenia.

Effetti endocrini.

Alterazioni nelle gonadotropine. Insufficienza surrenalica. Disfunzioni ipofisarie. Ipotiroidismo.

...stavo facendo una ricerchina sul GABA perchè mi pareva che ci fosse una discussione apposita ma ho trovato questo e lo metto in UP perchè questa discussione conteneva questo ed altri spunti utili...se avete il link sul Gaba mi sarebbe utile :)
 
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53 replies since 1/11/2005, 19:38   5456 views
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