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Viaggio agli inferni del secolo., Dino Buzzati, "profeta" contemporaneo.

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yareol
view post Posted on 2/2/2011, 11:50 by: yareol
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Non importa quanto è buio il cammino, guarda solo la Luce di fronte a te.

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Capitolo terzo - Le diavolesse.


Il cunicolo terminava, dopo una ventina di metri, ai piedi di una stretta scala; e lassù c'era l'Inferno.
Dall'alto veniva una luce grigia ed opaca come di giorno. Era una sola rampa di una trentina di scalini. In cima, un cancelletto di ferro. Di là dal cancelletto passavano sagome di uomini e donne, tutti camminavano in fretta, ne vedevo solo la parte superiore, le spalle, le teste.
Dall'alto non veniva frastuono di traffico ma un ininterrotto brusio, o meglio, un sommesso rombo, con dentro, sparsi qua e là, piccoli colpi di clacson.
Col batticuore salii, raggiunsi il cancelletto, i passanti non mi badavano. Che strano Inferno, era gente come voi, come me, avevano in apparenza la medesima compattezza corporea, i medesimi vestiti che si vedono da noi tutti i giorni.
Che avesse ragione l'ingegner Vicedomini? Che fosse tutto uno scherzo, e io imbecille a bere una fandonia simile? L'Inferno quello. Semplicemente un quartiere di Milano a me sconosciuto.
Eppure non si spiegava la stessa circostanza che aveva impressionato l'assistente Torriani: pochi minuti prima, nella stazione della Metropolitana, erano le due di notte e qui adesso era giorno. Oppure era tutto un sogno?
Guardai intorno. Esattamente la scena descritta dal Torriani: in cui non c'era niente, a prima vista, di infernale e diabolico. Tutto anzi assomigliava alle nostre esperienze quotidiane, più ancora: non c'era nessuna differenza.
Il cielo era il cielo grigio e bituminoso, che conosciamo fin troppo bene, fatto di fumo e di caligini, e di là dal funesto strato si sarebbe detto non ci fosse il sole bensì una lampada smisurata, una squallida lampada come le nostre, un gigantesco tubo al neon, tanto le facce degli uomini risultavano livide e stanche.
Anche le case erano come le nostre, ne vedevo di vecchie e di modernissime, dai sette ai quindici piani in media, nè belle nè brutte, come le nostre molto abitate, con quasi tutte le finestre accese, dietro le quali si scorgevano uomini e donne seduti al lavoro.
Rassicurante il fatto che le insegne dei negozi e i manifesti pubblicitari era scritti in italiano e riguardavano gli stessi prodotti che giornalmente pratichiamo.
La strada pure non aveva nulla di straordinario. Solo che era interamente stipata di automobili ferme, come appunto veva descritto il Torriani.
Le automobili non erano ferme perchè desiderassero restare ferme o per ordine di un semaforo. Esisteva un semaforo infatti a una quarantina di metri, e stava dando luce verde. Le macchine erano semplicemente intasate per un gigantesco ingorgo che può darsi si propagasse all'intero corpo della città, non potevano andare nè avanti nè indietro.
Nell'interno delle automobili ferme stavano le persone, per lo più uomini soli. Anch'essi non sembravano ombre, bensì individui in carne ed ossa. Con le mani sul volante, immobili, sulle facce pallide un'ottusa atonìa1 come per effetto di stupefacenti. Essi non potevano uscire neppure se avessero voluto, tanto le macchine erano serrate le une sulle altre. Guardavano fuori, attraverso i finestrini, guardavano lentamente, con espressione di... anzi, senza nessuna espressione. Ogni tanto qualcuno toccava il clacson, emetteva un flebile colpetto, senza fiducia, così, neghittosamente2. Pallidi, svuotati, castigati e vinti. E più nessuna speranza.
Allora mi chiesi: è forse questo il segno che siamo veramente all'Inferno? O incubi del genere avvengono abitualmente anche nelle città dei vivi?
Non sapevo rispondere.
Certo, la fissità àtona3 e perduta di quegli uomini imprigionati e inchiodati nella loro automobili, accidenti che scena.
Una voce decisa al mio fianco: << Ben gli stà! >>.
Alta, vestita di un tailleur grigio ferro stretto in vita, una donna sui quarant'anni, molto bella, osservava le automobili compiaciuta. Era ferma a mezzo metro da me, ne vedevo il profilo. Una faccia da statua greca, ferma, autoritaria, sicura di sè. Sorrideva.
Istintivamente le chiesi: << Perchè? >>.
Non si voltò neppure. << Hanno fatto coi clacson un baccano d'inferno per quasi un'ora >> rispose. << Finalmente si sono domati, i maledetti. >> Perfetta pronuncia italiana, solo con una leggera erre.
Dopodichè mi guardò. Occhi azzurri, come una corrente elettrica.
<< Venuto su dalla scaletta? >> mi chiese con ironia.
<< Ma... io... >>
<< Avanti, signore, mi segua. >>
In che stupido impiccio mi ero andato a mettere. Fossi stato zitto. La regina delle amazzoni4 aprì la porta a vetri di una casa. << Di qua, prego. >>
Disse "prego" ma era peggio di un comando militare. Come potevo disubbidire, io, intruso clandestino? Seguendola avvertii un leggero profumo che ricordava l'ozono.
Mi guidò a un ascensore, entrammo. Nella cabina c'erano altre sette persone. Si stava stretti, sentii la pressione dei corpi, erano consistenti come il mio. Dunque non c'era nessuna differenza fra i dannati e noi vivi? Le stesse facce, gli stessi vestiti, la stessa lingua, gli stessi giornali, gli stessi rotocalchi, le stesse sigarette perfino (un tipo di ragioniere cavò infatti di tasca un pacchetto di nazionali super col filtro e ne accese una).
<< Dove andiamo? >> osai chiedere alla generalessa. Manco mi rispose.
Si uscì al decimo piano. La donna spinse un uscio senza intestazioni. Mi trovai in una grande sala tipo ufficio con una parete tutta a vetri. Di fuori, il plumbeo panorama della città.
Da un capo all'altro della sala si stendeva un banco come per ricevere il pubblico. Di là, una decina di ragazze in grembiule nero e collo bianco di pizzo stavano lavorando chi alle macchine per scrivere, chi a delle curiose tastiere con tanti bottoni, chi a dei quadri di comandi elettrici (così almeno parvero a un incompetente).
Tutto aveva un aspetto di modernità, lusso ed efficienza. Dinanzi al banco, tre poltroncine di cuoio nero e un piccolo tavolo di vetro. Ma la arciduchessa non mi invitò a sedere.
<< Entrato a curiosare? >> domandò senza preamboli.
<< Sa... solo un'occhiata... sono un giornalista... >>
<< Entrare, guardare, ficcare il naso, ascoltare, prendere appunti, vero? E poi filarsela senza pagare il dazio, vero?... No, signore, non è possibile... Chi entra da noi deve subire tutte le conseguenze fino in fondo, sarebbe troppo comodo altrimenti... >> Poi chiamò: << Rosella! Rosella! >>.
Accorse una ragazzina sui diciotto, il volto ancora da bambina, il labbro superiore tirato in su dalla tensione della pelle giovanetta, gli occhi ingenui e stupefatti. Inferno fin che si vuole, pensai, ma non sarà poi questo gran disastro se popolato da bestiole simili.
<< Rosella >> ordinò la presidentessa << prendi un po' le generalità del signore e controlla suito sullo schedario generale se per caso... >>
<< Senz'altro >> fece la Rosella che evidentemente aveva capito al volo.
<< Se per caso che cosa? >> indagai, con una progressiva inquietudine.
La padrona rispose placida: << Se per combinazione lei è già registrato qui da noi... >>.
<< Sono appena arrivato! >>
<< Non vuol dire. Spesso si dà il caso... Del resto non costa niente controllare. >>
Diedi nome e cognome, la Rosella andò ad armeggiare sulla tastiera di un cofano metallico simile alle calcolatrici elettroniche. Ne uscì un ronzio. Quindi si accese un lumino rosso, si udì uno scatto e un cartoncino rettangolare color rosa planò in un piccolo cestello d'alluminio.
Pentesilea5 lo prese, parve soddisfatta.
<< Me lo immaginavo... Appena l'ho vista giù in strada... Con quella faccia!... >>
<< Come sarebbe a dire? >>
Incuriosite, altre tre ragazze oltre a Rosella si erano avvicinate al banco ed ascoltavano. Nessuna all'altezza della Rosella, ma poco meno: fresche, aggiornate, spiritose.
<< Sarebbe a dire, caro signor Buzzati, che anche tu sei dei nostri, e da un pezzo anche. >> Era passata al tu subitamente.
<< Io? >>
La direttrice sventolò la scheda.
<< Senta, signora >> dissi. << Qui c'è un grosso equivoco. Io non so chi lei sia precisamente. Ma voglio essere sincero fino in fondo... E lei riderà, le verranno le lacrime dal ridere... Sa che cosa credevo? Sa che cosa mi avevano garantito? >>
<< Che cosa? >>
<< Che qui... che questo, insomma... era l'Inferno >> e risi con un certo sforzo.
<< Non vedo cosa ci sia da ridere. >>
<< Bè, evidentemente è stato tutto uno scherzo. >>
<< Scherzo? >>
<< Ma se sono tutti vivi qui. Lei non è viva forse? Quelle signorine non sono vive? E allora? L'Inferno non è nell'aldilà? >>
<< Chi l'ha detto? Dio non paga il sabato6. >>
Le quattro ragazze assistevano divertite, avevano nasi piccoli, sottili, intraprendenti.
Io tentavo di difendermi: << Io qui non ci sono stato mai. Come fate ad avere la scheda col mio nome? >>
<< Non sei mai stato in questa casa. Ma la città che vedi qui sotto tu la conosci molto bene. >>
Guardai. Non la riconoscevo.
<< Milano, no? >> disse. << E dove pensavi di essere? >>
<< Questa, Milano? >>
<< Certo, Milano. E anche Amburgo, e anche Londra, e anche Amsterdam, Chicago e Tokio nello stesso tempo. Mi meraviglio di te. Col mestiere che fai dovresti pur sapere che due mondi, tre mondi, dieci mondi possono... come dire?... possono coesistere nello stesso luogo, compenetrati uno nell'altro... Pensavo che tu la conoscessi questa storia. >>
<< E io... Io dunque sarei dannato? >>
<< Penso di si. >>
<< Che cosa ho fatto di male? >>
<< Non lo so >> disse. << Non ha importanza. Tu sei dannato perchè sei fatto così. I tipi come te l'Inferno se lo portano dentro fin da bambini... >>
Io cominciavo ad aver paura.
<< E lei, signora, chi sarebbe? >>
Le ragazzine si misero a ridere. Lei pure. Ridevano in uno strano modo.
<< Vorrai anche sapere, immagino, chi sono queste mie figliole. Vero che sono delle graziose bambine? Vero che ti piacciono? Vuoi che te le presento? >>
Si divertiva moltissimo.
<< L'Inferno! >> insisteva. << Vieni a darci un'occhiata, lo riconoscerai, no? Dovresti sentirti di casa. >>
Mi afferrò per un braccio, mi spinse alla vetrata.
Vidi allora di sotto la città con una precisione meravigliosa, fino alle estreme lontananze. Declinando la opaca e livida luce del giorno, si erano illuminate le finestre. Milano, Detroit, Dusseldorf, Parigi, Praga, mescolate insieme in un delirio di pinnacoli e di abissi, sfolgoravano, e in questa immensa coppa di luce si agitavano gli uomini, questi microbi, incalzati dal galoppo del tempo. La spaventosa, la orgogliosa macchina da loro stessi costruita girava macinandoli ed essi non fuggivano, anzi facevano ressa per buttarsi nel cavo degli ingranaggi.
La ispettrice mi toccò una spalla.
<< Vieni di là. Le mie bambine vogliono farti vedere un grazioso giochetto. >>
Anche le rimanenti impiegate che fino ad allora avevano badato al lavoro si affollarono intorno con squittii e risatine.
Mi condussero in una sala adiacente, qui c'erano vari apparati complicatissimi con alcuni schermi simili a televisori.
La adorabile Rosella afferrò la manopola di un'asta simile, in piccolo, alle leve dei cambi ferroviari. E cominciò un orribile esercizio.


1 Debolezza, mancanza di carattere, di volontà.
2 senza convinzione, pigramente.
3 priva di volontà.
4 uno dei tanti appellativi affibbiati dall'autore allo strano personaggio comparso in questo capitolo e sempre relativi al suo aspetto. In realtà il vero nome della donna non viene mai fatto, ma l'autore lascia chiaramente intendere che si tratta del Diavolo in persona.
5 la regina delle amazzoni secondo la mitologia greca. Figlia del dio della guerra Ares, combattè con i troiani e fu uccisa da Achille. Anche qui si riferisce all'aspetto fiero e autoritario della suprema direttrice dell'Inferno.
6 per la religione ebraica il sabato è il giorno di riposo per gli uomini e per Dio, che in questo giorno non paga, non dà aiuto; come dire che prima o poi arriva il momento della resa dei conti.


Edited by yareol - 11/2/2011, 18:17
 
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