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Viaggio agli inferni del secolo., Dino Buzzati, "profeta" contemporaneo.

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yareol
view post Posted on 6/2/2011, 11:29 by: yareol
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Non importa quanto è buio il cammino, guarda solo la Luce di fronte a te.

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Capitolo V - Le solitudini



Che strane case laggiù all’Inferno, là dove mi avevano messo ad abitare. Dalla parte davanti era uno spettacolo bellissimo. Scendeva vispa la neve per la vigilia di Natale fra luci, lumini, andirivieni, meravigliose salsicce, e quei cosini scintillanti. Certo, così da lontano non si distinguevano le facce se allegre o non allegre, ma il movimento, l’agitazione, la febbre sissignori. Su un davanzale un gatto si stirava sonnecchiando al dolce giovane bianco sole di maggio, ore dieci e mezzo del mattino, così propizie agli operatori economici nei solenni lucidati vestiboli delle borse bancarie, dove quei raggi sghembi di sole con dentro le volute di fumo azzurro Marlboro o Peer con filtro. E del crepuscolo d’ottobre che ne dite, il cielo azzurro profondo e il sole batte morendo sui finestroni e i pinnacoli d’alluminio nuovissimi mentre la riapertura dell’università dà quel senso di grande avventura che comincia, e lei che lo aspetta controluce nei giardini già spogli con la cara pelliccetta. O anche l’alba verde prussia completamente lavata dal vento che fa cigolare le insegne nei vicoli del porto e arriccia piccole onde dispettose, le gutturali sirene, l’agitazione delle ombre, il muggito verde dei parchi, la voglia di lavorare. Così almeno, vista da lontano, sembra.
Sembra. Ma esiste anche l’altra parte della casa, la parte di dentro, le viscere, le budella, i segreti dell’uomo. Non c’è Natale, né sole di maggio, né alba di cristallo, bensì luce di gesso grigia uniforme nel cortile che si inabissa alle due e mezza/due e tre quarti del pomeriggio, sì, potrebbero essere le flosce quattordici e quaranta di una tepida, infingarda1, maledetta domenica.
Vedete proprio qui sotto, sulla parete di sinistra, quel rientramento dove la luce stenta a penetrare, con una fila di misteriose finestre. Ivi si annidano gli esseri umani, illusi di non essere visti. Fuori, nella strada, l’animazione, i traffici, i soldi, l’energia, la lussuria, la convulsa battaglia. Qui nel cortile dei condominii universali le aride solitudini nostre e vostre.
Finestra del piano nono aperta al mio fianco: una specie di guardaroba contenente un bambino. Avrà sei anni, è brutto, è seduto per terra, è vestito bene, è immobile in mezzo a sparsi detriti di giocattoli, paperini, pupazzi, il padre al lavoro, la mamma di là con qualcuno. Ora con una serietà tremenda e lentezza si alza e cammina verso l’uscio, visto di schiena ha cinquantotto anni2 per lo meno, così esattamente sarà da vecchietto. Afferra la maniglia, la gira, spinge, ma il battente non s’apre, l’hanno chiuso dall’altra parte a chiave. << Mamma, mamma! >> grida allora, ma appena due volte. Serissimo, ritorna in mezzo alla stanza, solleva un bambolotto che di qua non si distingue bene, svogliato lo lascia cadere. Nuovamente si siede a gambe divaricate con la facilità che hanno i bambini, non guarda alla finestra, tanto sa che è inutile, guarda invece una cosa nell’angolo che di qui non si vede, fissamente, e di là una voce acuta e divertita simile a un "ohi ohi!", poi di nuovo il silenzio. Si chiudono e aprono le due manine sul pavimento di linoleum come per afferrare qualcosa che non c’è, adagio adagio, singhiozzando.
Piano ottavo, grande studio, mobili elettronici, l’uomo è seduto alla scrivania, la penna in mano per correggere la relazione manoscritta, ma la penna non si muove. Ha quarantacinque anni, baffetti e occhiali, ricco, abituato a comandare. La sedia della segretaria è deserta, se ne sono andati i commissionari, i fiduciari dei consorzi, i consiglieri delegati, i rappresentanti delle Americhe, i banchieri, i plenipotenziari, è venuta la sera. Passato l’orario, nessuno infatti ha più bisogno di lui, tacciono stanchi i cinque telefoni neri, l’uomo li guarda ansioso, indefinibile sete interna, non bastandogli le grandi, potenti, solide, invidiate cose che ha. Bisogno di libertà? Di follia? Di giovinezza? Di amore? Scende la sera, è discesa la sera, ad uno ad uno, l’importante, l’autorevole, il temutissimo, vedo che prende i cinque telefoni neri, se li mette sulle ginocchia e li accarezza come gatti sornioni ed egoisti. Trillate, suonate, chiamate, rompetemi le scatole fedeli amici di tante battaglie, non parlatemi solo di ordinativi, di cifre, di tratte, almeno una volta parlatemi di altre stupide cose. Nessuno però dei cinque gattoni si muove, duri, ermetici, muti, nessuno risponde ai tocchi delle impervie mani. Di fuori, nel vasto regno, di là delle quattro pareti tutti certo lo conoscono e sanno il suo nome, ma ora che la terribile notte verrà nessuno lo cerca, lo chiama, né donna, né pezzente, né cane, non hanno più bisogno di lui.
Piano settimo. Si vedono appena due piedi nudi abbandonati e immobili come quelli di un piccolo Cristo al termine della deposizione. Adesso che sono usciti i parenti, ciascuno verso i rispettivi interessi, che sono uscite le comari, le amiche, il buon don Gervasoni della parrocchia, il direttore didattico, la maestra, il medico fiscale, il commissario di P.S., il fioraio, il fosco imprenditore, i compagni di classe in comitiva, ora che la casa è rimasta vuota e tutti quelli che dieci minuti prima erano lì commiserando, lacrimando, singhiozzando, sono ormai in giro pieni di vita, chiacchierano, ridono, fumano, mangiano cannoni con la panna, ora che è tornata la calma, la donna si è messa a lavare il suo bambino morto perché se ne vada bello pulito. È stato un camion ad ammazzarlo, è stata un barca ad annegarlo, è stato il treno, è stata la diga. La disgrazia ha fatto una grande impressione, ne hanno parlato la radio e i giornali ma ventiquattro ore sono già passate, e sono tante. Certo occorre un pannolino morbido, acqua tepida, borotalco, amore. Nessuno la interromperà, disturberà, garantito, hanno altro per la testa. Di quassù odo ogni tanto la sua voce, non sono gemiti e disperazioni, anzi è un discorso tranquillo come tutti i giorni fanno le mamme, solo che è l’ultima volta. «Sai che cosa sei Pupetto? Sei un grande porcellino, guarda che nere queste orecchie, e qui sul collo... Se non ci fossi io, in che stato andresti a scuola. Ma che cos’hai oggi Pupetto? Ti lasci fare, non protesti, non strilli, oggi sì che sei buono...» Poi un tonfo, un grande silenzio a forma di mostro con una lunghissima coda.
C’è anche un altro che sta lavando al piano di sotto, numero sei. Inginocchiato sulle piastrelle strofina una macchia oblunga. Dall’alto la persona non si vede, soltanto le mani che accanitamente fregano con moto circolare. Nella stanza è acceso un transistor3 che frigge e sibila emettendo musica swing. Una macchia oblunga e scura dall’approssimativo colore del sangue. Ma ecco che le due mani scompaiono abbandonando lo straccio, ecco lui farsi al davanzale, è un giovanotto sui trent’anni, solido, sano, sportivo, con le basette anche. Si guarda intorno, accende una sigaretta, sorride, chi più tranquillo di lui? Non è successo assolutamente nulla. Una casa rispettabile e incensurata. Egli fuma a lenti respiri, perché mai dovrebbe avere fretta? Getta l’ultimo mozzicone, si ritira, la piccola brace con spiritosa traiettoria si perde nei tetri meati4 in penombra. Poi, nella luce che declina, di nuovo quelle due mani inferocite che strofinano, strofinano, e la macchia diventa sempre più nera, si allunga, si allarga, si gonfia vittoriosa al suono stridulo di una danza, di un surf, di una samba, di un mondo lontano dove lui mai ritornerà.
Nel piano quinto, l’ultimo in cui dalla mia posizione si poteva vedere qualche cosa, c’era pure un uomo. Non dico che esistesse veramente: c’era. La luce morta del cavedio5 se ne stava andando come il cameriere decrepito del vecchio caffè quando parte l’ultimo cliente. Lo vedevo dall’alto in basso, in prospettiva quasi verticale. Stava in piedi, fermo, perduto, naufrago di un mare ostile e cupo che l’attorniava per estensioni immense. La schiena vedevo, un po’ curva, la sommità del cranio, quei capelli piccoli e grigi. In piedi come sull’attenti. Di fronte a chi?
Lo vedevo, lo guardavo, all’improvviso lo riconobbi dalla caratteristica curva della nuca, il vecchio compagno! Lui. Quanti anni insieme, gli stessi pensieri, desideri, sfoghi, disperazioni. Amici eravamo, di una intimità straordinaria, anche se ingrato di aspetto, e per anni gli volli bene. Stava ora dinanzi allo specchio, diritto e curvo, orgoglioso e sconfitto, padrone e servo, con quella brutta piega all’angolo dell’occhio.
E perché così fermo? Cosa c’era? Qualche ricordo? O la vecchia umiliante ferita che di tanto in tanto si contorce e manda sangue? O il rimorso? O il pensiero di avere sbagliato tutto? O gli amici perduti? O i rimpianti?
Rimpianti di cosa? Della giovinezza che è finita per caso? Ma lui se ne ride della giovinezza, la giovinezza non gli ha dato che pene e malinconie. Lui se ne ride, ah ah! Lui ha tutto ciò che l’uomo può onestamente desiderare. No, al tempo, rettifico. Non proprio tutto, anzi qualcosa soltanto. Anzi niente, adesso che ci pensa.
A questo punto lo chiamai sporgendomi dal davanzale. Ciao, dissi, perché era un vecchio amico. Lui neppure si voltò, con la destra fece un cenno quasi per dire "andate, andate". Allora adieu. Vestito di grigio con una stilografica e una biro nella tasca interna della giacca, la nuca alquanto scavata. E bisognava vederlo. Cercava anche di tenersi su, con le mani sui fianchi, imbecille. E sorrideva anche. Ero io6.
Dopodiché con mia sorpresa si spalancò ancora il piano di sotto. Illuminata al neon, una grande sala di cui non scorgevo la fine, piena zeppa di gente. Almeno quelli non saranno soli, pensai.
Era un ricevimento, era un concerto, era un cocktail, era una conferenza era un’assemblea, era un comizio. La sala era zeppa, ma continuavano ad arrivare e si stipavano gli uni sugli altri.
Mi accorsi che c’ero anch’io7, sceso dal piano di sopra. Riconobbi una quantità di persone, i compagni di lavoro coi quali viviamo gomito a gomito per decine d’anni e non sappiamo non sapremo mai cosa sono, i coinquilini che da decine d’anni dormono ogni notte di là del muro a una cinquantina di centimetri e ne udiamo perfino il respiro ma non sappiamo, non sapremo mai cosa sono, c’era il nostro medico, il droghiere, il garagista, l’edicolante, la portinaia, il cameriere che per decine d’anni ogni giorno incontriamo e parliamo eppure non sappiamo, non sapremo mai cosa sono. Adesso erano compressi nella folla gli uni contro gli altri, si fissavano con occhi àtoni8, nessuno si riconosceva.
Così, quando il pianista attaccò l’Appassionata, quando il conferenziere disse "dunque", quando il valletto servì i Martini, tutti fecero un moto con la bocca a guisa di pesci morenti, invocando forse un po' d'aria, un grammo almeno di quella cosa di orribile gusto che si chiama pietà, amore. Ma nessuno si liberava, nessuno era capace di uscire dalla casa di ferro in cui si trovava chiuso fin dalla nascita, dall'orgogliosa, cretina scatola della vita.




1 ingannevole, illusoria.
2 dall'aspetto curvo e dimesso che dimostra in quel momento.
3 così detta familiarmente la radio a transistor.
4 stretta apertura, in questo caso si riferisce alle dimensioni strette e profonde del cavedio (vedi nota seguente), evidente riferimento allo squallore della veduta.
5 Nell'architettura moderna il cavedio - denominato talvolta anche chiostrina, vanella o pozzo di luce - indica il cortile di piccole o di piccolissime dimensioni, che serve prevalentemente a fornire aria e luce a locali secondari (bagni, gabinetti, disimpegni, servizi etc.). Il cavedio deriva dal cavaedium che, nella casa romana, era lo spazio scoperto al centro della domus, contornato al perimetro da un muro, sul quale si aprivano le porte di accesso alle varie stanze (tratto da Wikipedia). Esempio
6 l'autore in quell'uomo vede sè stesso da vecchio.
7 idem come sopra, l'autore è come se vedesse una parte della sua vecchiaia.
8 inespressivi.


Edited by yareol - 5/11/2015, 15:59
 
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