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Il diabete mellito II può essere curato!

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nibiru
view post Posted on 27/7/2010, 21:42




www.diabetenews.8m.com/

Questo sito è stato creato allo scopo di informare i diabetici sia dell'esistenza dell'effettiva ed attuale possibilità di cura e guarigione del diabete mellito tipo 2, sia degli ostacoli insormontabili creati e frapposti alla verifica sperimentale dell'ipotesi, necessaria per poter consentire ai malati di fruire delle valide cure che sarebbero immediatamente possibili. Perciò, invitiamo tutti i diabetici a richiedere con la dovuta forza il rispetto della legalità, e la sollecita effettuazione delle verifiche sperimentali necessarie per l'attuazione della corretta terapia medica e chirurgica del diabete mellito tipo 2. Per il più sollecito raggiungimento di questo fine, i diabetici sono invitati a dare la loro adesione formale alla seguente istanza al Capo dello Stato.


Il diabete mellito tipo due

può essere curato, può essere guarito

può e deve essere debellato



Oggi i diabetici del tipo due vengono considerati malati cronici, che non possono guarire, e vengono sottoposti a cure inefficaci, creando così le condizioni per la progressiva evoluzione della malattia e per la comparsa delle gravi complicanze che tutti i diabetici conoscono e temono. L’ipotesi scientifica sulla patogenesi epatica del diabete mellito tipo due dimostra chiaramente che 1a malattia insorge in conseguenza di una alterata funzionalità del fegato, che rende inattiva l’insulina, provocando in tal modo l’aumento progressivo della concentrazione degli zuccheri nel sangue (iperglicemia), che, raggiunti certi livelli spesso in associazione ad altre alterazioni metaboliche dovute alla inefficienza funzionale del fegato, provoca danni dei piccoli vasi arteriosi che, secondo la loro sede, producono le temibili complicanze caratteristiche del diabete: degenerazione ed emorragie retiniche, con frequente cecità; nefropatia, con insufficienza renale; cardiopatie gravi; alterazioni neuro, circolatorie degli arti inferiori, con necrosi tessutali, ecc. La "ipotesi sulla patogenesi epatica del diabete mellito tipo 2" permette di comprendere facilmente come questa grave e diffusa malattia, definita dalla legge italiana "di alto interesse sociale", possa essere agevolmente prevenuta e validamente curata e guarita nelle fasi iniziali, ma come, anche nei casi già tanto evoluti da richiedere, oggi, la terapia insulinica, si potrebbe ben correggere definitivamente l'aumentata concentrazione degli zuccheri nel sangue ( iperglicemia ), che è responsabile delle gravi complicanze, mediante un intervento chirurgico di esecuzione abbastanza semplice. Si otterrebbe cosi la restituzione della salute e di una buona qualità della vita ai centoquaranta milioni di esseri umani ammalati di diabete mellito tipo 2, oggi esposti a gravi sofferenze ed a morte precoce. Ma, da più di tre decenni, dalla colpevole inerzia e dagli irremovibili rifiuti silenziosi delle pubbliche istituzioni che hanno il dovere di prevenire e curare il diabete, è stato reso impossibile fornire la dimostrazione sperimentale dell'ipotesi, necessaria per poter attuare le valide cure mediche e chirurgiche del diabete mellito tipo 2.


IPOTESI SULLA PATOGENESI EPATICA DEL DIABETE MELLITO TIPO 2

Valutazione dei dati

Conclusioni

References

Allegati



PRESENTAZIONE DELL’AUTORE

La presente "Ipotesi sulla patogenesi epatica del diabete mellito tipo due" fu da me formulata nel lontano 1968, in connessione con i miei studi sulla struttura e funzione del fegato, che mi avevano consentito di formulare nel 1967 l’altra mia ipotesi teorica originale sulla zonazione morfologica e funzionale del lobulo epatico (Ipotesi sulla settorialità delle funzioni metaboliche epatiche. Boll. Soc. med. Chir. Cremona. 3:161-191,1967).

All’epoca, l’assoluta originalità di quello studio sul fegato indusse a pareri ampiamente discordanti gli eminenti studiosi ai quali avevo richiesto una valutazione. Così, si andò dall’opinione ampiamente favorevole di scienziati come Michele Bufano, V. Hoenig e Antonio Ascenzi, alle valutazioni assai scettiche di altri illustri studiosi, come Hans Popper, Giorgio Dominici e Luigi Villa. Mi fu, comunque, reso impossibile effettuare le verifiche sperimentali che avevo progettato, e non mi rimase che attendere che il progredire della ricerca scientifica mondiale giungesse a dimostrare la correttezza dell’ipotesi, nella quale nutrivo assoluta fiducia.

Nel frattempo, portai a termine l’elaborato sulla seconda ipotesi originale, relativa alla patogenesi epatica del diabete mellito tipo due, che i numerosi riscontri effettuati nel corso dello studio sul fegato mi avevano consentito di formulare. Ma tutte le rassegne scientifiche alle quali mi rivolsi ne rifiutarono la pubblicazione, sempre con vaghe ed inconsistenti motivazioni.

Anche questa volta, avevo progettato una verifica sperimentale che avrebbe potuto dimostrare pienamente la correttezza dell’ipotesi, ed avevo organizzato l’équipe per effettuarla, ma intervennero inspiegabili veti, che riuscirono ad impedire la realizzazione dell’esperimento. Ed inutili sono stati gli innumerevoli tentativi da me fatti nei decenni successivi per ottenere almeno la pubblicazione dell’elaborato. Intanto, la ricerca mondiale, dopo molti anni, era pervenuta alla dimostrazione dell’esattezza della mia ipotesi teorica sulla zonazione morfo-funzionale del lobulo epatico, e non sono mancati autorevoli, seppur privati, riconoscimenti del mio vecchio studio (vd. Allegati 3-4-5-6), che non sono però in alcun modo serviti a portarlo all’attenzione della comunità scientifica, che tuttora lo ignora.

Mi lamentai di questo irremovibile, pluridecennale silenzio con il Presidente dell’Ordine del Medici della provincia di Genova, facendogli notare come questo silenzio fosse iniquo, anche perché mi impediva di dare maggiore autorevolezza all’ipotesi relativa al diabete mellito, con grave danno per milioni di ammalati , ai quali viene inammissibilmente negata la possibilità delle valide cure che quello studio consentirebbe.

Il Presidente dell’Ordine, dott. Sergio Castellaneta, sottopose alla valutazione del prof. Roberto Testa, dell’Università degli Studi di Genova, la mia vecchia pubblicazione relativa alla "Ipotesi sulla settorialità delle funzioni metaboliche epatiche", assieme ad altra mia pubblicazione sullo stesso argomento (Zonazione morfo-funzionale del lobulo epatico. Prev. Soc. 1; 1978). Il prof. Testa non poté non esprimere giudizi assai positivi sul mio vecchio studio (vd. allegato 2). Ma, anche questa valutazione elogiativa è rimasta un fatto strettamente privato, senza alcun valore per la Scienza e per gli ammalati.

Intanto, pure la mia ipotesi sulla patogenesi epatica del diabete mellito aveva trovato una suggestiva conferma, a seguito dei grandi progressi della chirurgia, che hanno consentito il trapianto di fegato. Cosi, un recente studio, riportato e commentato nella presente pubblicazione, condotto su I7 diabetici con cirrosi epatica, sottoposti a trapianto di fegato, ha dimostrato il clamoroso miglioramento, ed a volte la guarigione, della sindrome diabetica. Si trattava, quindi, di uno studio che rappresentava una effettiva e positiva verifica sperimentale dell’ipotesi, che può pertanto essere oggi a buon diritto considerata non più una "ipotesi", ma una concreta realtà scientifica.

Stando così le cose, mi sono rivolto nuovamente al Presidente dell’Ordine dei Medici di Genova, pregandolo di sottoporre anche l’ipotesi sul diabete alla valutazione di autorevoli esperti della materia. La scoraggiata replica del dott. Castellaneta (vd allegato 1) è stata che lui e l’intero Consiglio si erano rivolti per ben due volte a Colleghi universitari, i quali avevano risposto negativamente .Fatto gravissimo, che impone l’interrogativo di quale possa essere il motivo per cui ad uno studio di oggettivo grande interesse medico e scientifico, ampiamente corredato di numerosi e concordanti dati scientifici, debba essere negata la possibilità non solo di essere sottoposto alla doverosa verifica sperimentale, già progettata e di agevole esecuzione, ma, addirittura, di ottenere una corretta valutazione da parte di qualificati studiosi della materia, e la pubblicazione su una rassegna scientifica.

E questo interrogativo diviene più urgente quando si prenda conoscenza di molti altri accadimenti non meno incomprensibili ed allarmanti. Ad esempio, ho recentemente rivolto istanza a dieci Presidenti di Regione, ente pubblico ai quale la legge demanda la prevenzione e la cura del diabete mellito, di far valutare in modo serio e competente il mio studio e le prospettive di prevenzione e di cura che esso offre, così da consentire finalmente ai diabetici, in atto ed a coloro che potranno ammalare, di fruire dei grandi benefici che a loro potrebbero derivarne. Nessuna delle dieci Regioni ha dato una qualsivoglia risposta. Ma, seppur senza darmene comunicazione, la Regione Marche, riconoscendo la sua competenza e responsabilità istituzionale nella materia, aveva chiesto ad un diabetologo di esprimere il parere sul mio studio. L’esperto, che ha formulato la relazione (vd. allegato 7) a mia insaputa, non esprime alcuna valutazione sulla sostanza del mio studio, ma si limita ad esporre diverse stravaganti osservazioni personali, tra cui una, anche grossolanamente ed incomprensibilmente erronea, sulla "anzianità" della letteratura da me studiata .Fatto sorprendente ed incomprensibile, ma ancor più incomprensibile, e grave, appare il silenzio tuttora mantenuto dalla Regione, anche dopo che ho informato il suo Presidente dell’inammissibile erroneità di quella osservazione, chiedendo un pubblico incontro con l’esperto che l’aveva formulata, per chiarirne le cause, il significato e le conseguenze.

Intanto, in così irremovibile silenzio delle pubbliche istituzioni, milioni di diabetici sono costretti ingiustamente a soffrire ed a morire, privati delle valide cure che la conferma sperimentale dell’ipotesi renderebbe rapidamente possibili.

Malamente si comprende, perciò, quali possano essere i reali motivi dell’implacabile ostracismo che impedisce una ricerca scientifica di agevole ed economica esecuzione, che, indubbiamente, si presenta di grande interesse per la Scienza e per l’umanità.



IPOTESI SULLA PATOGENESI EPATICA DEL DIABETE MELLITO TIPO 2

II diabete mellito tipo 2 appare in genere quando, per errore dietetico protratto, si verifica un elevato scostamento percentuale dal peso fisiologico, con elevato valore della lipemia, colesterolemia, uricemia e con alterato rapporto beta-alfa lipoproteine. Negli individui che si trovano in queste condizioni nutrizionali e metaboliche sono state rilevate curve glicemiche a tipo prediabetico con una frequenza superiore al 75% dei casi. Una tale situazione dietetico metabolica è comune tanto all’insorgere del diabete mellito 2 che all’instaurarsi di una sofferenza epatica quale si ha, per esempio, nella steatosi epatica, riscontro assai frequente nei soggetti obesi. La metamorfosi grassa è stata riscontrata epatobiopticamente nel 50% degli obesi, così come la tolleranza al glucosio in un gruppo di obesi è risultata diminuita nel 50% dei casi studiati. Perciò, negli obesi si riscontrano, in un’alta percentuale di casi, due ben definibili situazioni patologiche: uno stato prediabetico, con alterazioni plurimetaboliche, ed una steatosi epatica con segni d’insufficienza dell’organo, con ritenzione della bromosulfaleina (1l), con diminuita tolleranza al glucosio e non infrequente iperglicemia. Pertanto, queste due situazioni patologiche sono evidentemente dipendenti da un fattore etiologico comune - errore dietetico ed eccesso ponderale - e, almeno in una certa fase della malattia, i disturbi metabolici presenti nei due stati morbosi sono praticamente sovrapponibili.

È stato osservato che il diabete mellito o non si modifica o peggiora nel corso di epatite. In apparente contrasto con tali osservazioni, ve ne sono di più rare che indicano come in malattie epatiche a varia etiologia e decorso (epatiti, cirrosi epatica, tumori), può aversi un transitorio o persistente miglioramento della situazione metabolica del diabete o la comparsa di brusche ipoglicemie in soggetti anche non diabetici. Il Maranon riferisce di casi nei quali ha potuto osservare, nel corso di cirrosi epatica, inizialmente fenomeni ipoglicemici e, tardivamente, comparsa di glicosuria. Altri AA hanno prospettato l’esistenza di una cosiddetta glicosuria da iperepatismo.

Nel corso del 1° simposio internazionale sul diabete (13), fu osservato come nelle malattie epatiche spesso si manifesti un’insulino-resistenza, ed il Magyar fece osservare che esiste un rapporto tra insulino resistenza e quadro disprotidemico degli epatopazienti, ma se, con opportune cure, si riesce a diminuire il livello serico delle gammaglobuline anche il fabbisogno di insulina diminuisce.

Siffatti fenomeni, seppur apparentemente contrastanti, depongono pur sempre per l’esistenza di evidenti rapporti tra funzione epatica e diabete mellito.

Il Soskin dimostrò sperimentalmente l’esistenza di un meccanismo omeostatico del fegato mediante il quale quest’organo interviene nella regolazione del ricambio glucidico, anche mediante una temporanea interruzione della cessione di glucosio, allorché la glicemia aumenta.

L’esattezza dell’esperimento del Soskin fu successivamente dimostrata da Searle e Chalikoff mediante la tecnica degli isotopi radioattivi.

Altro fenomeno che indica l’importanza del fegato nell’economia del metabolismo glucidico è lo shock ipoglicemico che segue l’estirpazione del fegato, anche nel caso che l’esperimento venga eseguito in animale precedentemente pancreatectomizzato. Tali esperimenti dimostrano che il fegato, oltre a svolgere l’importantissimo compito della reazione reversibile del glucosio in glicogene, regola anche la liberazione del glucosio, l’immagazzinamento del glicogene e il tasso glicemico, sia in situazioni fisiologiche che patologiche.

Una parte di gran rilievo nel metabolismo glucidico è riservata all’insulina, per la sua azione rapidamente ipoglicemizzante e per l’importanza che essa riveste per l’utilizzazione del glucosio a livello tessutale. Tuttavia, quest’ormone, per la sua grande attività e per l’importanza che ha il mantenimento del tasso glicemico entro stretti limiti di tolleranza, deve essere necessariamente sottoposto ad un meccanismo di controllo da parte dell’organo omeostatico per eccellenza, qual è il fegato. Pertanto, l’insulina neoincreta, prima di essere immessa nel circolo generale, viene convogliata dalla vena pancreatico duodenale al fegato, che sembra svolgere una vera e propria azione di filtro, così che solo una parte dell’ormone possa giungere al circolo generale in forma attiva.

Inoltre:

a) - ricerche condotte con iodo-insulina marcata, hanno dimostrato che oltre il 70% dell’insulina presente in circolo viene fermata a livello della cellula epatica e trasformata in un’ora, e che ogni qual volta il sangue attraversa il fegato, questi fissa circa il 40% dell’insulina presente;

b) - Pfeiffer fu il primo a notare che quando si determina uno stimolo all’insulinopoiesi, l’insulina si versa nella vena pancreatica in forma libera, mentre nella vena sovraepatica essa si trova prevalentemente in forma coniugata con una proteina. L’insulina legata rappresenterebbe una pronta riserva per le necessità metaboliche. Ciò sarebbe confermato dal fatto che, quando aumenta la concentrazione ematica del glucosio, si verifica un aumento dell’insulina libera ed una diminuzione dell’insulina legata. Usando insulina marcata, è stato constatato che a digiuno l’ormone si distribuisce quasi uniformemente tra le bande delle beta e delle gamma globuline, mentre dopo carico di glucosio l’insulina migra con le alfa-globuline, evidentemente a seguito dell’avvenuta scissione del legame che univa l’insulina alla proteina. E qui, conviene ricordare anche l’osservazione del Magyar, precedentemente riferita, sull’esistenza di un rapporto tra insulino-resistenza e quadro disprotidemico degli epatopazienti, per cui se si riesce a diminuire il livello serico delle gammaglobuline, anche il fabbisogno insulinico diminuisce. Nel diabetico la quota d’insulina libera a digiuno è uguale o anche superiore a quanto si vede nel normale, ma dopo carico di glucosio la quota libera non aumenta a spese della quota legata, come avviene nel normale;

c) - Meythaler e Stahnke (9) esclusero il sangue refluo pancreatico dal circolo portale, deviando la vena pancreatico-duodenate nella vena renale, così che l’insulina neoincreta non venisse immediatamente a contatto con la cellula epatica. Il risultato fu un accentuato abbassamento della glicemia a digiuno ed un’accentuata ipoglicemia reattiva dopo carico di glucosio;

d) - somministrando insulina per via orale non si ottiene di solito alcun effetto ipoglicemizzante evidente, e ciò perché l’ormone viene inattivato dai fermenti digestivi. Però, alcuni AA hanno sostenuto che l’insulina non viene distrutta dalla pepsina o dalla tripsina, ma solo inattivata momentaneamente. Infatti, dopo 24 ore di contatto con la tripsina a 24° C, sarebbe stato possibile recuperare l’insulina. L’aggiunta di bile di bue all’insulina dovrebbe, inoltre, svolgere azione antitriptica, così come l’aggiunta di determinate sostanze coloranti organiche riuscirebbe a proteggere l’insulina dall’azione dei succhi gastrici. Lasch e coll. supponevano che una tale miscela, somministrata per os, dovesse attraversare la mucosa intestinale senza decomporsi. Ma la clinica dimostra che tutti i tentativi in tal senso non hanno ottenuto alcun pratico risultato;

e) - secondo la maggioranza degli studiosi, le sulfalinuree esplicherebbero la loro azione ipoglicemizzante attraverso una diretta stimolazione delle betacettule, con conseguente neoproduzione d’insulina. Tuttavia, ulteriori studi hanno portato a concludere che questa non sarebbe la sola modalità di azione delle sulfalinuree. È stato, per esempio, dimostrato che le sulfalinuree non agiscono in animali epatectomizzati, e che piccole dosi d’insulina iniettate nella vena porta risultano ipoglicemizzanti solo se associate ad una dose di tolbutamide, di per se non ipoglicemizzante. La tolbutamide, secondo i ricercatori, potrebbe perciò svolgere la sua azione ipoglicemizzante solo in presenza d’insulina ed a mezzo dell’attività epatica.

Colwell (3) ed Hasselblatt (7) hanno prospettato un possibile differente meccanismo d’azione delle sulfalinuree, che potrebbe essere rappresentato da un’attivazione da parte della talbutamide dell’insulina inattiva (insulina legata) mediante il dissolvimento del supposto legame con la proteina, fenomeno che, come si è visto, non sembra verificarsi nei diabetici, contrariamente a quanto avverrebbe nei soggetti sani;

f) - reperti clinici e sperimentali dimostrano che non vi è una perfetta identità tra le conseguenze metaboliche dell’ipoglicemia insulinica e quella da tolbutamide. Ad es., mentre l’ipoglicemia insulinica provoca aumento dei depositi di glicogeno del muscolo, l’ipoglicemia determinata dalla tolbutamide provoca un aumento del glicogene del fegato. Un tale fenomeno potrebbe essere spiegato col fatto che, mentre l’insulina esogena, entrando direttamente nel grande circolo, giunge primitivamente ai tessuti periferici, l’insulina endogena, versandosi nel circolo portale, giunge primitivamente al fegato;

g) - ricerche eseguite da Creatzfeldt -Marigo hanno concluso per una funzione insulare presso che normale in epatopazienti con alterate curve di tolleranza al glucosio.

Valutazione dei dati

Tutti i dati - disponibili da gran tempo - che si sono ricordati in precedenza, sembrano indicare abbastanza chiaramente l’origine, l’instaurarsi e l’evoluzione del diabete mellito 2 come naturale e progressiva conseguenza di un errore dietetico protratto che determina un grave disturbo plurimetabolico, cui si accompagna frequentemente steatosi epatica, con segni evidenti di insufficienza funzionale dell’organo, con elevati valori della lipemia, della colesterolemia, dell’uricemia, con alterato rapporto beta/alfa lipoproteine e con diminuita tolleranza al glucosio.

Essendo il fegato organo omeostatico per eccellenza, e svolgendo un ruolo centrale e di fondamentale importanza nel metabolismo glucidico, ad esso deve essere necessariamente affidato anche il controllo della quantità di insulina attiva circolante. Tale controllo sembra esplicarsi con la inattivazione reversibile dell’ormone che il pancreas produce in eccesso rispetto al fabbisogno reale. L’inattivazione avverrebbe mediante coniugazione dell’insulina in eccesso con una proteina, legame che verrebbe dissolto in caso di aumentato bisogno di insulina. Su questo fondamentale aspetto della questione, prospettato particolarmente dall’Antoniades (1), si è molto dibattuto, e sono state sollevate molteplici obiezioni, specialmente da Berson e Yalow (2), ma senza definitive conclusioni. Tuttavia, che il diabete tipo 2 trovi la sua patogenesi in un’alterata funzione epatica può dedursi, come si è visto, da molte osservazioni: dalla coesistenza frequente, in soggetti chiaramente diabetici, di iperinsulinemia e di iperglicemia, con assenza di riscontrabili lesioni a carico del tessuto pancreatico endocrino; dal fatto che il diabete tipo 2 insorge solitamente dopo protratto errore nutrizionale con conseguenti alterazioni dismetaboliche, comuni all’epatopatia ed alla sindrome diabetica; dal fatto che l’insulina neoincreta in eccesso rispetto al reale fabbisogno deve essere resa inattiva, e che l’insulina esogena si dimostra attiva solo se somministrata per via parenterale; dal fatto che la deviazione della vena pancreatico-duodenale nella vena renale provoca un accentuato abbassamento della glicemia a digiuno e un’accentuata ipoglicemia reattiva dopo carico di glucosio, come dimostrò l’esperimento di Meythaler e Stahnke (9) del 1930; dal fatto, su cui richiama l’attenzione l’osservazione del Magyar, dell’esistenza di un rapporto tra insulino-resistenza e quadro disprotidemico degli epatopazienti, e della possibilità di diminuire il fabbisogno insulinico ove si riesca a far diminuire con adeguata terapia il livello serico delle gammaglobuline; dal fatto che un meccanismo d’azione della talbutamide risiederebbe proprio nella sua capacità di dissolvere il legame dell’insulina con la proteina. A tutte queste osservazioni, da lungo tempo note, se ne aggiungono ora di recenti, particolarmente utili per l’interpretazione che qui si ritiene di poter dare a questo grande problema di fisiopatologia. Esse sono relative ai trapianti di fegato, alle conseguenze che, dopo questo grande intervento chirurgico, si manifestano in relazione alla sindrome diabetica, ed agli studi relativi ai rapporti esistenti tra diabete mellito tipo 2, cirrosi epatica e risultati del trapianto di fegato in pazienti con cirrosi epatica e diabete mellito.

Una recente comunicazione di Gentile S. e al. (6) richiama l’attenzione sui seguenti fatti:

a) che è stato osservato che frequentemente si manifesta un diabete mellito "de novo" dopo il trapianto di fegato, sebbene esso sia di solito transitorio e correlato alla somministrazione di farmaci immunosoppressivi. Sembrerebbe, in proposito, del tutto legittimo ricondurre le transitorie manifestazioni cliniche, riportabili ad uno stato diabetico, ad una presumibile condizione di sofferenza epatica post trapianto. Ed il fatto che un fegato sicuramente sofferente generi, con una certa frequenza, una sindrome riferibile a diabete mellito, che regredisce, però, consensualmente alla sofferenza epatica post-trapianto, sembra un altro suggestivo elemento di valutazione relativamente alla stretta connessione tra funzionalità epatica e diabete mellito 2;

b) che la comparsa e l'incidenza di alterata tolleranza al glucosio e di diabete manifesto sono significativamente più alte nei cirrotici scompensati che in quelli ben compensati. È questa una osservazione che ancora una volta testimonia, in modo assai evidente, la stretta correlazione esistente tra funzionalità epatica e sindrome diabetica;

c) che, per studiare la possibile correlazione tra mutamento dello stato nutrizionale dopo trapianto di fegato e tolleranza al glucosio, furono esaminati 17 pazienti malnutriti, affetti da diabete mellito 2 e HCV - Ab + cirrosi epatica, prima del trapianto di fegato e durante 24 mesi dopo. I pazienti avevano un’età pre-trapianto di 52+/- 3 anni; la durata conosciuta del diabete era di 9+/- 2,4 anni, senza significative complicanze; il 29,4% dei pazienti aveva almeno un parente di primo grado con diabete, e tutti erano sotto trattamento insulinico con 59+/- 12 U pro die. La diagnosi di diabete mellito 2 era basata sulla loro necessità per insulino-terapia/ farmaci antidiabetici orali o sui livelli di glucosio a digiuno > 140 mg/dl in tre consecutive volte, in assenza di chetoacidosi in anamnesi.

Tra i dati riportati dagli AA, rilevati per finalità diverse, mancano purtroppo i dati relativi ai livelli insulinemici nelle varie fasi e condizioni dell’osservazione. Ma sembra legittimo ritenere che si trattasse di casi di diabete in cui i livelli insulinemici erano bassi. Quindi, sindromi diabetiche non lievi. Pertanto, acquistano significato di particolare rilevanza i parametri generali, oltre a quelli relativi alla glicemia ed al fabbisogno insulinico, riportati nella tavola 2 della comunicazione, e che consentono di raffrontare i dati precedenti al trapianto con quelli relativi all’osservazione dopo 24 mesi: bilirubina totale da mg/dl 3,9 +/- 1,5 a mg 0,7 +/- 0,4; proteine totali da g5,8 +/- 08 a g 7.,8 +/- 6,4; albumina da mg 2.,2 +1- 07 a mg 3,6 +/- 0.6; glicemia media da mg 160 +/- 42 a mg 109 +/- 15; trattamento insulinico, dose giornaliera, da U 59 +/- 12 a U 18 +/- 11; U/kg totale peso corporeo da 0,9 +/- 0,4 a 0,2+/- 02. Risulta evidente da tali parametri che l’indiscutibile miglioramento che si constata a 24 mesi dall’avvenuto trapianto di fegato riguarda complessivamente tutti gli indici riportati nella tavola, tra i quali non appare meno favorevole l’evoluzione della glicemia e del fabbisogno insulinico .Pertanto, il miglioramento netto del metabolismo glucidico e, quindi, della sindrome diabetica, non sembra giustificare la conclusione, cui giungono gli AA, che la riduzione dell’insulino-resistenza constatata dopo il trapianto di fegato sia da attribuire all’incremento della massa muscolare ed al ruolo primario svolto dai ricettori muscolari dell’insulina, più che a una possibile influenza del mutamento del metabolismo del glucosio dovuto a modificazione dei meccanismi del fegato neoimpiantato. Invece, tutti i dati e tutte le considerazioni precedenti depongono chiaramente per la stretta connessione esistente tra l’evidente miglioramento della funzione epatica ed il miglioramento di tutti i parametri organici dei pazienti in osservazione, tra i quali vi sono anche i parametri del metabolismo glucidico. Inoltre, uno studio molto recente di Nizar N. e al. (10) fornisce altri dati di grande interesse per l’ipotesi, qui formulata, della patogenesi epatica del diabete mellito tipo 2. Gli A.A. osservano che "the prevalence of diabetes was significatly greater among patients with hepatitis C - or alcohol-related cirrhosis compared with those with colestatic liver disease" e che "the increased risk of diabetes has also been reported in a retrospective study of patients with hepatitis C without liver cirrhosis (5), supporting the role of hepatitis C virus in the pathogenesis of diabetes." Interpretando questa conclusione alla luce dell’ipotesi che il diabete mellito 2 sia la conseguenza diretta del danno epatocellulare causato dalla malattia fondamentale che ha provocato la cirrosi di fegato, appare assolutamente chiaro il motivo per il quale il diabete sia significativamente più frequente tra i pazienti con cirrosi del fegato correlata a epatite C o ad abuso di alcool in raffronto ai pazienti con malattie colestatiche.

Infatti, mentre nei primi due stati morbosi la necrosi degli epatociti è precoce, diffusa e grave, con conseguente danno della funzione insulino-regolatrice da parte del fegato, nelle cirrosi da malattie colestatiche il danno epatocellulare e tardivo e meno accentuato, trattandosi di cirrosi biliare primaria, o colangite sclerosante primaria. Inoltre, questa patogenesi del diabete spiega altrettanto chiaramente anche perché l’epatite C renda maggiore il rischio di diabete anche senza cirrosi (5), poiché appare logico che l’epatite C, per la sua capacità aggressiva verso il parenchima epatico, produce estese lesioni anatomo-funzionali che alterano la fondamentale funzione insulino-regolatrice del fegato. Perciò, appare ingiustificata la considerazione espressa dagli A.A: "A recent retrospective study (8) that ineluded 1117 patients wich chronic viral hepatitis showed a 21% prevalance rate of diabetes in patients with chronic HCV", e che "the pathogenesis of diabetes in patients with hepatitis C or alcohol associated cirrhosis is not well understood. Features that are present in these 2 disorders and absent from cholestatic liver disease are likely to provide clues to the pathogenesis of hepatic diabetes. Increased fat and iron deposition in the liver are common features among patients with hepatitis C virus infection and those with alcoholic liver disease (4)".Infatti, la patogenesi del diabete nei pazienti con cirrosi associata ad epatite C o ad abuso di alcool appare assai chiara e comprensibile, se si valutano i fenomeni alla luce dell’ipotesi sull’alterazione del delicato meccanismo di controllo dell’attività dell’insulina da parte del fegato, a seguito dell’aggressione da parte del virus dell’epatite C o da parte dell’alcool. Inoltre, l’ipotesi rende assai evidente anche quali siano le "features that are present " nelle malattie provocate dal virus dell’epatite C e dall’alcool e che sono "absent from cholestatic liver disease" Esse sono, come si è detto in precedenza, il danno degli epatociti, fortemente presente e precoce nelle prime due malattie ed assai meno presente nelle malattie colestatiche, caratterizzate fondamentalmente dalla cirrosi biliare primaria e dall’accumulo di grasso, o steatosi epatica, che, come conseguenza dell’errore dietetico protratto, è solitamente presente all’instaurarsi della sindrome diabetica. E ciò rende facilmente comprensibile anche il motivo per il quale il diabete mellito è più frequente e grave nelle cirrosi scompensate che in quelle compensate, come si è precedentemente rilevato (6). L’articolo di Nizar e al.(10) si chiude con una considerazione problematica di grande interesse per l’ipotesi qui formulata :"In summary, our results suggest the underlyng cause of liver cirrhosis is an important determinant of the risk of diabetes. The cause of diabetes in patients with hepatitis C or alcoholic cirrhosis is not clear. Direct viral-induced injury, insulin resistance related to excess liver fat, or excess iron deposition may have a role need to investigated in future studies. If the findings of this study are confirmed in future investigations, diabetes should not be included in the clinical spectrum of liver cirrhosis; however, il should be added to the list of extrahepatic manifestations of hepatitis C and alcoholic liver cirrhosis."

Ma l’ipotesi teorica sulla patogenesi epatica del diabete mellito indica in modo del tutto convincente che il fattore fondamentale del rischio di diabete nella cirrosi epatica correlata al virus dell’epatite C, all’eccesso di alcool o a protratto errore dietetico, consista sempre nel danno anatomico e funzionale che questi meccanismi lesivi provocano al parenchima epatico.

Conclusioni

La grande quantità di dati scientifici concordanti, riportati e commentati nel presente articolo, sembrano giustificare ampiamente l’ipotesi che il diabete mellito di tipo 2 sia la diretta conseguenza della profonda alterazione del metabolismo glucidico dovuta ad un danno anatomico e funzionate del fegato con conseguente profonda alterazione del suo fondamentale ruolo di regolazione dell’attività dell’insulina. Ciò comporta importanti conseguenze sulle possibilità di prevenzione, di diagnosi precoce e di terapia, anche chirurgica, del diabete mellito:

Prevenzione. Conoscendo i meccanismi etio-patogenetici del diabete mellito tipo due, la prevenzione della malattia deve essere ovviamente indirizzata verso tutti i fattori alimentari, infettivi e tossici che possono svolgere azione patogena sul fegato.

Diagnosi precoce. Ancor prima della comparsa di diminuita tolleranza al glucosio, si manifesta, come si è osservato, il fenomeno patogenetico caratteristico del diabete mellito, ossia, l’aumento dell’insulina inattiva circolante e la diminuzione della sua riattivazione in occasione dell’aumentato fabbisogno insulinico. La rilevazione di questo fenomeno patognomonico può essere, quindi, utilizzato in modo assai proficuo nei soggetti considerati a rischio di diabete mellito (obesi, forti consumatori di alcool, soggetti con pregressa infezione da virus dell’epatite C) per evidenziare precocemente l’instaurarsi del diabete. Ciò, permetterebbe di assumere assai precocemente ed efficacemente tutte le misure igieniche, dietetiche e terapeutiche necessarie.

Terapia. La terapia del diabete mellito nella sua fase più precoce sarà logicamente rivolta ai provvedimenti dietetici ed ai trattamenti epatoprotettori, tendenti ad arrestare e correggere la disfunzione epatica responsabile della inattivazione dell’insulina. Ma quando il diabete è già evoluto, tanto da richiedere la terapia insulinica, può allora trovare indicazione il trattamento chirurgico, consistente nella deviazione totale o parziale dal circolo portale del sangue refluo pancreatico, e quindi dell’insulina endogena, mediante la deviazione delle vene pancreatico-duodenali nella vena renale, o altra vena non tributaria del sistema portale.

La deviazione totale o parziale del sangue refluo pancreatico (da decidere dopo attenta valutazione della residua funzionalità pancreatica, dell’insulinemia e del rapporto esistente tra insulina attiva ed insulina inattiva circolante), consentirebbe all’insulina endogena di sfuggire, in tutto o in parte, alla inibizione patologica da parte del fegato, e di svolgere perciò la sua nominale attività fisiologica. Intervento che, se ben calibrato, correggerebbe il grave disturbo del metabolismo glucidico che caratterizza la sindrome diabetica. Ovviamente, questa terapia chirurgica che io propongo per le forme più evolute di diabete, se effettuata su animali diabetici, rappresenterebbe anche la verifica sperimentale della mia ipotesi originaele. Gli eventuali episodi ipoglicemici che dovessero manifestarsi in conseguenza di una eccessiva riduzione o dell’abolizione del controllo epatico sull’attività insulinica, non dovrebbero comunque rappresentare un problema clinico di grande significato, come è stato dimostrato dallo studio di Redmon e al. (12) in relazione alla sindrome ipoglicemica che si riscontra come complicanza nel 30-50% dei trapiantati di pancreas. Sindrome probabilmente causata dalla modalità e sede della reinserzione della vena pancreatico-duodenalc effettuata nel corso del trapianto.

Le vene pancreatiche si dirigono alla superficie esterna del pancreas e, nel loro maggior numero, si accollano alle arterie e si immettono in parte nella lienale o in una delle meseraiche, in parte nel tronco stesso della vena porta.

In corrispondenza della testa del pancreas d’ordinario esistono, come per le arterie, due arcate venose pancreatico-duodenali che uniscono l’uno all’altra il tronco della vena porta e la vena piccolo meseraica.



REFERENCES

1). Antoniades H.N., J.A. Bougas, R. Camerini-Davalos, H.M. Pile. Insulin regulatory mechanism and diabetes mellitus. Diabetes. 13: 230-240, 1964

2). Berson S.A., and R.S. Yalow. Some current controversies in diabetes research. Diabetes. 14: 549-572, 1965

3). Colwell A.R. Jr Potentiation of insulin action on the liver by tolbutamide. Metabolism. 13: 1310-1317, 1964

4). Fiore G. Fera G. Napoli N. Vella F Schiraldi O. Liver steatosis and chronic hepatitis C: a spurious association? Eur J Gastroenterol Hepatol 8: 125-129, 1996

5). Fraser GM. Harman 1. Meller N. Niv Y. Porath A. Diabetes mellitus is associated with chronic hepatitis C but not chronic hepatitis B infection. Isr J Med Sci 32: 526-530, 1996.

6). Gentile S., S. Turco, R. Torella. Diabetes mellitus after liver transplantation: a possible relation with the nutritional status. Diabetes res Clin Pract. 41: 203-205, 1998

7). Hasselblatt A. Liberation of insulin bound to serum protein by tolbutamide. Metabolism. 12: 302-310, 1963

8). Mason AL. Lau JY. Hoang N. Qian K. Alexander GJ. Xu L et al. Association of diabetes mellitus and chronic hepatitis C virus infection. Hepatology. 29: 328-333, 1999

9). Meythaler F., E. Stahnke. Die Wirkung des Pankreashormons bei experimenteller Umgehung der physiologischen Leberpassage. Arch exp Path Pharm. 152: 185-197, 1930

10). Nizar N.Zein, Ahmad S Abdulkarim, Russel H Wiesner et al. Prevalence of diabetes mellitus in patients with end-stage liver cirrhosis due to hepatitis C, alcohol, or cholestatic disease. J Hepatol 32: 209-217, 2000.

11). Popper H. and F Schaffner. In: Fegato struttura efunzione, edited by I1 Pensiero Scientifico Ed. Roma 1961, pag. 1257-1259

12). Redmon JB, Teuscher AU, Robertson RP. Hypoglycemia after pancreas transplantation. Diabetes Care 21: 1944-1950, 1998

13). 1º Simposio Internazionale sul Diabete, Modena 21-22 settembre 1963, Atti


Segue...sul sito del Dott. Domenico Fico www.diabetenews.8m.com/main.htm



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