...grazie tiziano....
Tiziano Terzani
“Un altro giro di Giostra”
Queste prime 5 pagine dell’ultimo libro lasciatoci da Tiziano sono un omaggio che insieme a Longanesi decise di fare agli iscritti al Tiziano Terzani “Fun” Club (www.tizianoterzani.com).
Tutti i diritti rimangono riservati e la pubblicazione e la distribuzione sono consentite solamente citandone la fonte. Buona lettura!
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UN CAMMINO SENZA SCORCIATOIE
SI SA, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare
a noi. Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento.
Così, quando capito a me, ero impreparato come tutti e in un primo
momento fu come se davvero succedesse a qualcun altro.
« Signor Terzani, lei ha il cancro », disse il medico, ma era come
non parlasse a me, tanto e vero – e me ne accorsi subito, meravigliandomi
– che non mi disperai, non mi commossi: come se in
fondo la cosa non mi riguardasse.
Forse quella prima indifferenza fu solo un’istintiva forma di
difesa, un modo per mantenere un contegno, per prendere le distanze,
ma mi aiuto . Riuscire a guardarsi con gli occhi di un sé
fuori da sé serve sempre. Ed e un esercizio, questo, che si può
imparare.
Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere. Pensai
a quanti altri prima di me, in quelle stesse stanze, avevano
avuto simili notizie e trovai quella compagnia in qualche modo
incoraggiante. Ero a Bologna. C’ero arrivato attraverso la solita
trafila di piccoli passi, ognuno di per sé insignificante, ma nell’insieme
decisivi, come tante cose nella vita: una persistente
diarrea incominciata a Calcutta, vari esami all’Istituto delle Malattie
Tropicali a Parigi, altri esami per scoprire la causa di un’inspiegabile
anemia, finché un accorto medico italiano, non accontentandosi
delle spiegazioni più ovvie, s’era messo con un suo
strano strumento – un penetrante serpentaccio di gomma dall’occhio
luminoso – a guardare nei recessi più reconditi del mio corpo
e, per coltivata esperienza, aveva immediatamente riconosciuto
quel che conosceva.
Gli ero grato per essere stato bravo e chiaro. Così potevo, con
calma, e ora con una vera ragione, fare i miei conti, ristabilire le
mie priorita e prendere le decisioni necessarie. Stavo per compiere
cinquantanove anni e mi venne da voltarmi indietro, come si fa
per guardare con soddisfazione la salita che si e fatta, una volta
arrivati in cima a una montagna. La mia vita fino ad allora? Meravigliosa!
Un’avventura dopo l’altra, un grande amore, nessun
rimpianto, niente di importantissimo ancora da fare. Se da ragazzo,
partendo per questo viaggio, mi fossi dato per meta quella di
per sé già agognata da tanti di « piantare un albero, mettere al
mondo un figlio e scrivere un verso », più o meno c’ero arrivato.
E quasi senza accorgermene, senza sforzo e, strada facendo, divertendomi.
Quella notte in ospedale, nel silenzio rotto solo dal frusciare
delle auto sull’asfalto bagnato della strada e da quello delle suore
sul linoleum del corridoio, mi venne in mente un’immagine di me
che da allora mi accompagna. Mi parve che tutta la mia vita fosse
stata come su una giostra: fin dall’inizio m’era toccato il cavallo
bianco e su quello avevo girato e dondolato a mio piacimento
senza che mai – me ne resi conto allora per la prima volta –,
mai qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto.
No. Davvero il biglietto non ce l’avevo. Tutta la vita avevo viaggiato
a ufo! Bene: ora passava il controllore, pagavo il dovuto e,
se mi andava bene, magari riuscivo anche a fare... un altro giro di
giostra.
Il giorno dopo comincio come un giorno qualunque. Niente attorno
a me era cambiato e niente rifletteva la gran tempesta di
pensieri che mi turbinava in testa. A Porretta Terme, dove dovetti
cambiar treno per raggiungere Pracchia e da lì Orsigna, mi ricordai
persino di andare a ritirare la biancheria che qualche giorno
prima avevo lasciato a lavare. Arrivato a casa, proposi ad Angela
che mi aspettava di andare assieme a fare una passeggiata nel bosco.
Dopo quasi quarant’anni di vita in comune fu semplice parlarsi
e tacere. Le promisi di impegnarmi a farcela, e quello, credo,
fu l’unico momento in cui mi commossi.
Si trattava di decidere presto cosa fare. Il primo istinto fu quello
di un animale ferito: ritirarsi in una tana. D’un tratto mi parve
di avere poche forze e di doverle concentrare al massimo. Decisi
di non dire niente a nessuno, tranne ai figli e a quegli amici che
avrebbero trovato incomprensibile il mio scomparire dal mondo.
Volevo mettere a fuoco la mia mente, non essere distratto da nulla
e da nessuno.
Innanzitutto dovevo scegliere dove curarmi e in particolare come
curarmi. Chemioterapia, radioterapia, chirurgia con tutte le
loro – si dice – devastanti conseguenze non sono più le sole alternative.
Anzi, oggi che tutto e messo in discussione, che tutto
quel che e ufficiale e visto con sospetto, che ogni autorità ha perso
prestigio e che ognuno si sente in diritto, senza alcun ritegno,
di giudicare tutto e tutti, e diventato sempre più di moda dir male
della medicina classica e un gran bene di quella « alternativa ».
I nomi, se non altro, suonano più attraenti: ayurveda, pranoterapia,
agopuntura, yoga, omeopatia, erbe cinesi, reiki, e – perché
no? – i guaritori, filippini o no. C’è sempre un sentito dire, una
persona di cui qualcuno racconta, una storia che sembra essere
fatta apposta per essere creduta e dare speranza in una di queste
sempre più numerose « cure ». Non le presi sul serio neanche per
un attimo.
Eppure, molte di queste pratiche vengono dall’Asia, dove ho
vissuto per trent’anni; alcune hanno le loro radici in India, dove
ora ho casa! Io stesso in passato non ho avuto problemi a ricorrerci:
in Cina misi mio figlio Folco, allora undicenne, nelle mani
di un agopunturista che gli curo l’asma, e solo un anno prima di
dover decidere cosa fare con me avevo portato Leopold, il mio
amico francese, dal medico personale del Dalai Lama all’Istituto
Medico-Astrologico (sì, questa e la combinazione) di Dharamsala,
perché gli sentisse i suoi diciassette polsi e gli prescrivesse
delle – pare efficacissime – pillole nere, tipo cacherelli di pecora,
per un’epatite. E poi: sono stato io a dire e a scrivere che l’uomo
occidentale, imboccando l’autostrada della scienza, ha troppo facilmente
dimenticato i sentieri della sua vecchia saggezza e che
ora, conquistando l’Asia col suo modello di modernità, rischia di
far scomparire anche la una grande quantità di conoscenza legata
alle tradizioni locali!
Non avevo cambiato idea, ma quando si tratto della mia sopravvivenza
non ebbi un momento di esitazione: dovevo affidarmi
a cio che mi era piu familiare, alla scienza, alla ragione occidentale.
Non era solo una questione di tempo, e in questi casi non
se ne ha tanto da sprecare, visto che tutte le cosiddette medicine
alternative agiscono, quando agiscono, a lungo termine. Era che
nel fondo non mi fidavo. E l’aver fiducia nella cura e in chi la
somministra e un fattore importantissimo, direi fondamentale,
nel processo di guarigione.
La fortuna nella vita aiuta e io ne ho avuta in generale più della
normale dose. Anche questa volta la fortuna fu dalla mia, o almeno
io la sentii così; il che e in fondo esattamente la stessa cosa.
Fra i colleghi giornalisti, vecchi d’Asia, ce n’era uno, corrispondente
del New York Times, due volte premiato col Pulitzer, a cui
ero legato da un’amicizia nata da alcune esperienze comuni: tutti
e due eravamo stati arrestati ed espulsi dalla Cina; tutti e due,
contro ogni logica di carriera, avevamo scelto, dopo sedi molto
più « importanti », l’India come paese di cui occuparsi. Ora ci legava
un’altra coincidenza: un paio di anni prima l’amico aveva
avuto lo stesso tipo di malanno ed era sopravvissuto. L’andai a
trovare a Delhi e gli chiesi consiglio.
Quelli che avevano aggiustato lui, i « fixers » come li chiamava,
erano a suo parere i migliori sul mercato. Gli credetti. Un paio
di telefonate, un fax e nel giro di pochi giorni ero a New York,
diciottesimo nella lista di un nuovo trattamento sperimentale, nella
punta probabilmente più avanzata della medicina moderna occidentale:
il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center o meglio
l’MSKCC, come viene suggerito di scrivere sugli assegni, cosý
che sulla presenza in quella istituzione possa essere mantenuta
una certa discrezione anche con la propria banca.
Dopo l’uscita di Un indovino mi disse,* a chi mi chiedeva che
libro volessi ora scrivere rispondevo che i libri sono come i figli,
che bisogna almeno essere incinta per pensare di farli e che volentieri,
se mi capitava l’occasione, dopo tanti anni in Estremo
Oriente mi sarebbe piaciuto fare un gran viaggio di riscoperta
nell’Occidente più estremo: gli Stati Uniti. Con la scusa che
ero andato in America a cercare di « restare incinta », riuscii a
farmi dimenticare.
Negli annunci economici del New York Times lessi di un monolocale
da affittare su Central Park, lo andai a vedere e lo presi
all’istante. Quei pochi metri quadrati di moquette grigia, ravvivati
immediatamente con un paio di stoffe indonesiane e un piccolo
bronzo cinese di Buddha sul davanzale di una grande, bassa finestra,
divennero per alcuni mesi la mia tana.
A parte Angela e quelli dell’MSKCC, nessuno sapeva dov’ero.
Il telefono non squillava mai, nessuno suonava alla porta; la sola
via di comunicazione che avevo lasciata aperta col mondo era
quella della posta elettronica coi suoi messaggi in bottiglia che
approdavano di tanto in tanto sulla spiaggia cibernetica del mio
computer, che poteva essere dovunque. Secondo me questo e or-
* Sì, uno degli indovini, Rajamanickam di Singapore, mi aveva predetto
che fra i cinquantanove e i sessantadue anni avrei dovuto affrontare una
« strettoia » nella vita e forse anche un’operazione, ma era stato il solo.
Gli altri non avevano visto niente del genere nel mio futuro e tutti mi avevano
dato generalmente per longevo.
mai il più discreto, il meno invadente, il miglior mezzo di comunicazione
se lo si usa quando si ha davvero qualcosa da dire, se
non ci si abbandona al linguaggio sciatto imposto dalla velocità e
se si stampa, per poterlo sempre rileggere, quel che di buono si
riceve.
La situazione era perfetta. Era quella che da tempo sognavo:
avevo intere giornate di liberta, nessun impegno, nessun dovere
e l’incredibile agio di lasciare vagare la mente, senza interruzioni,
senza l’idea – un tempo l’ossessione – che avrei dovuto fare
qualcos’altro. Dopo tanto clamore godevo finalmente di tanto silenzio.
Per anni, preso da guerre, rivoluzioni, alluvioni, terremoti,
grandi mutamenti dell’Asia, ero stato un appassionato osservatore
di vite in pericolo, vite distrutte o, più spesso, sprecate: tantissime
vite altrui. Ora osservavo semplicemente quella che più mi
riguardava: la mia.
E da osservare ce n’era. Dopo nuovi esami e la solita sequenza
di « C’è un’ombra di cui non siamo sicuri », « Occorre un altro
esame », « Torni la prossima settimana », « Sono spiacente, ma
le debbo dare una brutta notizia... », si scoprì che il malanno
non era uno solo, ma erano tre, ognuno con le sue caratteristiche,
ognuno sensibile a un diverso tipo di terapia. Così, senza dubitare
un secondo della loro validità, anzi, aggiungendoci ogni volta una
mia psicologica certezza che tutto era giusto e il meglio che potessi
tentare, feci l’esperienza della chemioterapia, della chirurgia
e della radioterapia.
Mai, prima di allora, mi ero tanto sentito fatto di materia; mai
avevo dovuto guardare così da vicino il mio corpo e soprattutto
imparare a mantenerne il controllo, a esserne padrone, a non farmi
troppo dominare dalle sue richieste, i suoi dolori, le sue palpitazioni
e i suoi urti di vomito.
Mi resi conto di come, fino ad allora, avendo lavorato per un
settimanale, il mio ritmo biologico e i miei stati d’animo erano
stati determinati dalle scadenze – e spesso dall’angoscia – dell’articolo
da scrivere: grande gioia il sabato e la domenica quando
poteva cascare il mondo ma il giornale era già fatto e io non
avevo niente da aggiungere; indifferenza il lunedì quando il numero
successivo veniva pianificato; tensione il martedì e il mercoledì
quando dovevo pensare al nuovo argomento e cominciare
a prendere degli appunti; digiuno e concentrazione il giovedì,
giorno della consegna; sollievo guardingo il venerdì in caso di
aggiornamenti; per poi ricominciare daccapo, una settimana dopo
l’altra, dal fronte di una guerra, da una capitale dove era avvenuto
un colpo di stato, in viaggio attraverso un paese di cui dovevo
cercare di capire l’anima, o dietro a una storia di cui dovevo ricostruire
il filo. Ora tutti i giorni della settimana erano uguali,
senza alti né bassi: semplicemente, meravigliosamente piatti. E
nessuno voleva niente da me.
Ogni stagione ha i suoi frutti e la mia stagione giornalistica
aveva fatto i suoi. Mi succedeva ormai di ritrovarmi sempre
più spesso in situazioni simili a quelle in cui ero già stato, ad affrontare
problemi che già conoscevo. Il peggio era che scrivevo
sentendo l’eco di storie e di parole già scritte vent’anni prima. E
poi: i fatti, dietro ai quali un tempo correvo con la passione di un
segugio, non mi interessavano più allo stesso modo. Col passare
degli anni avevo incominciato a capire che i fatti non sono mai
tutta la verità e che al di la dei fatti c’è ancora qualcosa – come
un altro livello di realtà – che sentivo di non afferrare e che comunque
sapevo non interessare il giornalismo, specie per come
viene ormai praticato. Avessi continuato in quel mestiere, al massimo
avrei potuto tentare di essere come ero già stato. Il cancro
mi offriva una buona occasione: quella di non ripetermi.
Non era la sola. Lentamente mi accorsi che il cancro era diventato
anche una sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo,
una difesa contro tutto quel che prima mi aggrediva, una sorta
di baluardo contro la banalità del quotidiano, gli impegni sociali,
contro il fare conversazione. Col cancro mi ero conquistato il diritto
di non sentirmi più in dovere di nulla, di non avere più sensi
di colpa. Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano, e
a volte pareva stranissimo anche a me, ma ero felice.
« Possibile che bisogna proprio avere il cancro per godere della
vita? » mi scrisse un vecchio amico inglese. Aveva sentito dire del
mio essere scomparso e per e-mail mi aveva chiesto notizie. Gli
avevo risposto che quella « notizia » era un mio scoop e che sì,
dal mio punto di vista quello era, se non proprio il più bello, certo
il più coinvolgente periodo della mia esistenza. Viaggiare era
sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia
come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto,
per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in
alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora
era il più impegnativo, il più intenso. Tutto quello che succedeva
mi toccava direttamente.